CARAVAGGIO
E
IL
SUO
TEMPO
L´Italia
política fra rinascimento e baroco
A parere di uno dei migliori
conoscitori stranieri della storia italiana, l´austriaco Ludo M. Hartmann, “tre
sono i fatti saliente nella storia d´Italia dalla metà del secolo XVI in poi”:
il Concilio di Trento (1545-63), la fondazione della Compagnia di Gesù (1540) e
l´istituzione del Santo Uffizio dell´Inquisizione (1542)
In tre fatti indicati da
Hartmann certamente non esauri scono né il senso né gli indirizzi della vita
italiana dopo la metà del secolo XVI. Essi hanno, tuttavia, un indiscutibile
valore sia simbolico che concreto, richiamando tutti insieme a Roma e indicando
nella città dei papi un punto concreto di riferimento per la storia di quel
periodo. Si noterà, tuttavia, súbito che nessuno di quei tre fatti
specificamente alla figura del papa come sovrano italiano. Tutti rimandano,
invece, al ruolo dei pontefici come capi della Chiesa cattolica. Si trata, di
fatti che riguardano il resto dell´Europa cristiana, ed in particolare quella
cattolica, non meno che l´Italia. E, tuttavia, a buona ragione, erano citati da
Hartmann in relazione alla storia d´Italia che egli ripercorreva in compndio.
Fu, infatti, soprattutto l´Italia ad esserne tocata, nel senso che l´opera di
rafforzamento della Curia romana e della Chiesa che essi implicavano ebbe
successo soprattutto in Italia e, ancora, nel senso che nessun´altra azione di
eguale rilievo internazionale e político promanò allora dall´Italia.
Si trattava di un´Italia in cui i condizionamenti
derivanti dall´egemonia spagnola, stabilitasi già negli anni venti del secolo,
esrcitavano un peso dominante. Nel dominio diretto di alcune partid ella
penisola, per quanto ampie (Sardegna,
Sicilia, Napoli, presidi di Toscana: pressappoco i due quinti del paese) da
parte dei sovrani di Castiglia e dÁragona, l´egemonia spagnola aveva solo uno
dei suoi aspetti e delle sue ragioni. Contava ancora più il fatto che il
sovrano spagnolo fosse la potenza egemone –a non voler contare i suoi domini
oltre l´Atlantico- mell´intera Europa Occidentale, non ché nel bacino
occidentale del Mediterraneo. E contava la misura in cui la irradiazione
europea di un siècle dór espagnol si
faceva sentiré in Italia, prima ancora che nella letteratura, nel pensiero e
nelle arti, e forse ancor più, nella vita quotidiana, nella mentalità, nell
costume. “L´atteggiarsi alla spagnola”, ricorda Benedetto Croce, “suonò vanto”;
´spagnolato´, dice il Fraciosini, è colui che è avezzo secondo lo stile ed i
costumi di Spagna, che non potrà esser se non galantuomo. Si viaggiava verso la
Spagna per conoscere quella gran corte, Madrid; per apprendere i modi di comportarsi e di
percorrere le vie degli uffici. I gentiluomini italiani fecero parte degli
eserciti del re e vi si illustrarono… Il punto d´onore alla spagnola e i duelli
pervero prove di dignità e di vigore; alla spagnola si configurava il costume
degli uomini e delle donne, queste tenute nell´ignoranza e appartate dalla vita
sociale, con lode che, così facendo, si mantenesse l´austerità nelle famiglie.
Un curioso gergo italo-spagnuolo divenne la lingua di conversazione di signori
e dei cortigiani”.
La potenza della monarchia e lo
splendore di un´influenza ampia e forte nella vita europea, oltre che italiana,
del tempo alimentavano un alto senso del primato político e civile della
Spagna, che fu avvertito anche come orgoglio, alterigia insopportabile ad ogni
altro popolo. Il papa Sisto V protestava, sdegnato, che “`tanta la superbia
degli Spagnoli che non si collegariano con Dio, parendoli che niuno al momdo
sia degno d´esserli compagno”. Non si trattava in nessun nodo di sentimenti e
risentimenti assimilabili a quelli a cui hanno dato luogo il colonialismo e
l´imperialismo di epoche posteriori. Per in pasi dipendenti direttamente dalla corona
spagnola, l´equivalenza tra i vari paesi della monarchia dal punto di vista del
rapporto con la dinastía era fuori discussione: nella vita plotico-sociale en
el sentimento ético-politico, così come in quello che può essere definito il
diritto pubblico internazionale del tempo, la leittimità della signoria
dinástica era di una validità indiscussa, quando ne ricorrevano le condizioni.
Nel caso dei domini italiani della corona spagnola le condizioni, dovute a
ragioni erditarie o alla guerra o ad altri titoli si sovranità, erano
addirittura ineccepibili. Per le parti d´Italia non dipendenti dalla corona
spagnola e independenti, la presenza spagnola era un effetto prevedibile e
preveduto dei grandi conflitti che aveano agitato il paese nella prima metà del
secolo XVI; poteva riuscire gradito o sgradevole, ma rientrava nella lógica
degli equilibri di potenza che si erano allora delineati in Europa che nel 1559 la pace di Cateau-Cambrpesis
aveva sanzionato in modo che appariva insuscettibile di modificazioni
nell´avvnire prevedibile. I principi italiano ne erano stati indotti ad un
allineamento rigido sulla línea della política di Madrid. Naturalmente, ciò non
significava inmobilità assoluta o assenza di volontà e di azione política negli
stati italiani rimasti indepedenti.
Nel corso di u secolo –dal 1550 al 1650- Firenze medicea
e Roma pontificia accrebbero i loro territorio e così pure i Savoia. Ma si
trattava di modificazioni d´importanza minima. La Spagna stessa, con l´acquisto
del marchesato di Finale nel 1598, potenziò la sua già ottima situazione nella
penisola.
Ne l´energia e lo spirito di iniciativa di signoli
principi –come Cosimo I a Firenze, Emanuele Filiberto a Torino- o di classi di
governo di grande tradizione política- come quella veneziana- potevano superare
uno squilibrio di forze fin troppo
evidente. In realtà, no solo in Italia, ma in Europa la balance of power era nettamente a favore della monarchia spagnola
già da prima della metà del secolo XVI. A sbilanciarla ancora di più dopo la
pace del 1559 erano sopravvenute le guerre di religione, che per decceni
fermarono e indebolirono la monarchia francese, paralizando il maggiore
avversario di Madrid, l´unico dimostratosi capace di contenderé il passo a la
corona spagnola. Dagli anni sessanta era cominciata la rivolta dei Paesi
Bassi.La Riforma protestante si era consolidata in Germania, Scandinavia, in
Ungheria, in Svizzera, in Inghilterra. Ma l´assenza di una iniciativa francese
impediva a questi elementi di giocare in misura sensibile ai danni della grande
concentrazione di potenza che faceva capo a Madrid, e che, oltre all´Italia,
compredeva gli antichi domini ereditari degli Asburgo in Austria e la corona
del Sacro Romano Impero, assegnati nel 1556, all´atto dell´abdicazione di Carlo
V, a Ferdinando, suo fratello, mente il figlio Filippo II saliva sul trono di
Castiglia e d´Aragona. Quest´ultimo aveva potuto, perciò, intendersi con i
principi italiani per la grande azione antiturca, che portò nel 1571 alla
vittoria di Lepanto e arrestò definitivamente la marcia degli Ottomani verso il
Mediterraneo occidentale. Filippo II potè quindi rivolgere il grosso delle sue
forze verso l´Europa occidentale.
Era, perciò, fin troppo ovvio che il peso della “grande
monarchia” si avvertisse soprattutto in Italia. Lo avvertiva, in particolare,
propio perché non relegata soltanto alla condizione di principato italiano, la
Curia romana. A papa Sisto V l´ambasciatore spagnolo Conte di Olivares
ricordava, con una tracotanza intollerabile per il pontefice, che senza
l´appoggio e la forzad ella monarchia di Madrid la causa del cattolicesimo e di
Roma sarebbe stata destinata a soccombere. Altrettanto la presione spagnola si
faceva sentiré sugli altri principi italiani, per cuanto minori di quelle
pontificie ne fossero la posizione e le forze, e minore fosse, quindi, anche la
necessità di premere da parte della grande potenza per ricordare, i rispettivi
ruoli e le rispettive possibilità. Ne conseguiva, la parte dei sovrani
italiani, anche quelli da cui meno lo si aspetterebbe, un tono da vassalli più
que da potenze sovrane, significativo pendant dell´atteggiamento di estrema
prudenza con cui si cercava di regolarsi in ogno questione che potesse
interessare Madrid. Basterebbe citare per tutte la lettera di Cosimo I a Filippo
II, dell´11 aprile 1568, in cui il duca mediceo –ricordata la sua “vera
servitù” verso il re di Spagna, “provata insin al tempo della felice memoria di
Carlo Quinto, suo progenitore”- proclama: “il fine mio solo (è di) serviré…
primo alla santa fed cattolica e secondario all´interesse di Vostra Maestà et
il benessere delli stati di quella, et ancora delli miei stessi, li quali pero
propii di Vostra Maestà li tengo”. In Italia –proseguiva Cosimo- “ci è la
varietà di più principi e repubbiche”; e ciò debe indurre Filippo II a stare in
guardia. Per Cosimo dia il duca di savoia che Venezia non sono di peino
affidamnto per il re; bisognerà, perciò, tenerli d´occhio; quanto agli altri
principi italiani, “bisognerà faccino quanto Vostra Maestrà comanderà”; e anche
“il papa, per natura et per arte, bisogna faccia quanto Vostra Maestrà
giudicherà espediente”. La lettera di Cosimo I precisa tre punti fondamentali. Il primo è legato all´occasione per cui il duca scriv:
e cioè, “ li accordi in Francia tra il Re e li eretici o ribelli che voglian
dire”, per cui è da temeré che un accordo così poco credibile dall´una e
dall´altra parte non possariuscire duraturo se non impegnando il paese in
guerre esterne e, quindi, tntando, in pratica, un´azione o contro le Fiandre o
contro l Ítalia. Il secondo sta nella forte sottolineatura dlla potenza
di Filippo come”quella nella man della qual consiste il bnessere della
Christianità e quanto di buono si può sperare dalla sua santa fed cattolica”. Il
terzo sta nella crtezza che il re, “strigndosi con il papa”, potrà prvenire
ogni turbamento delle cos d´Italia. Così la Francia appare, quale era in raltà,
com l´unica alternativa possibile alla prepondrnza sagnola: la sua paralisi sul
piano internazionale a cause delle guerre di religione aveva determinato, già
súbito dopo la pace di Cateau-Cambrésis e la norte di nrico II, un dciso
rafforzamnto della posizione di Filippo II; il superamento delle lote civil
avrebbe fatalmente riversato all´esterno, come in effetti sarebbe accaduto con
Enrico IV, le sue perduranti, e anzi crescenti, energie e risors. Nello stesso
tempo Filippo II è visto ed esaltato come capo del partito cattolico in Europa,
innanzi tutto defensor fidei, prima e
più che come monarca spagnolo, allo stesso modo che l´impegno per la causa
cattolica preced, per Cosimo. Quello verso lo stesso Filippo II: così sono
messe in evidenza simultáneamente sia la sostanza ideologica dello schieramento
político-diplomatico in atto in Italia
fuori d ´Italia, sia il fondamento concreto di potenza assicurato ad
esso dalla leadership spagnola. In terzo luogo appare realísticamente colto il
cattere decisivo che in generale, ma in particolare poi in Italia, ha l´intesa
fra il Re di Spagna e il papa: sicuro di essa, il Rre non ha nulla da temeré in
Italia.
La lettera di Cosimo I è solo
un esempio particularmente importante di una riflssione política che coglieva
assai bene, nelle sedi del potere in Italia, i dati di fondo della situazione
europea ed italiana. Che non sfuggivano, del resto, né alla Curia romana, pricipale
interlocutrice della corona spagnola, né ai due stati italiani –Savoia e
Venezia- che Cosimo I dipingeva come inaffidabili per Madrid. L´ateggiamento
delle corti italiane era conseguente, così come è significativa la loro reciproca
concorrenza per acquistare –nell´ambito delle circostanze date- maggiore spazio
e dignità política o per sopravanzarsi nelle grazie della potenza egemone. A
questa gara Madrid guardava con favore. “In corte”, scriveva da Madrid nel 1584
l´ambasciatore veneziano, “non spiace l´immoderata ambizione di titoli sorta
nei principati d´Italia, né le pretenzioni di maggioranza tra loro; anzi, i ministri regi in Italia tengono
ordine di lasciarla passare inanzi, e piuttosto nutrirla e fomentarla”. E la
sorveglianza spagnol nelle minime implicazioni delle questioni italiane era
attentissima: ad Emanuele Filiberto di Savoia il comando dell´impresa di
Lepanto fu negato anche perché si temeva la reggenza che avrebbe tenuto,
durante la sua assenza, la moglie Margherita di Valois, ossia una principessa
francese del sangue, ritenuta pressoché un agente di Parigi.
D´altra parte, come negli stati italiani i sivrani
spagnoli avevano trovato una rispondnza spontabea nl sentimento ético-politico
che faceva del rapporto col re l´lemento decisivo del lealismo político, così
anche in Italia tutta erano solo voci di fastidio e di ripulsa quelle che si
sentivano nei confronti della grande monarchia ibérica. “È pur sempre
notevole”, come scrive Federico Chabod, “cjhe la Spagna trovi difensori in
copia, non tutti certo mossi da meschino srvilismo: dall´Ammirato, per cui
l´Italia sotto il dominio spagnolo ´da molti anni in qua si torva nella
maggiore felicità che mai fosse stata´, al Crisi, al Torelli che,
preoccupandosi dei problema religiosi e della lotta contro le confsioni
riformate, vede altresì nella Spagna la custod della ´purità della fede´. Come
è interesante il trovare chi affermi non essere poi l´Italia un paese de
cuccagna per gli Spagnoli: dal Boccalini, il quale… osserva che la Spagna non
ricava alcun utile dai suoi domini italiani, spendendovi più di quanto non
incassi, al piemontese Ludovico D´Agliè, che afferma essere notorio che la
Spagna spendva peri i sudditi quanto prendeva loro, se non più”. L´aspetto
finanziario dl problema era, per la verità, più complesso. Ma è importante che
nella opinione del tempo lo sfruttamento
finanziario dell´Italia de parte spagnola non trovasse tutti convinti. Così
come è importante che anche a livello di opinione pubblica, oltre che a livello
dei governi, leadership spagnola del campo cattolico nei confronti del
Protestantsimo fosse affermata con uguale convinzione come un punto
fondamentale di valutazione e di orientamento político.
La dipendenza complessiva della penisola dalla política e
dall´egmonia spagnola non fa, quindi, che essere messa ulteriormente in risalto
dai proggetti e dalle iniziative a cui i principi italiani si bolsero nelle
condizioni seguite alla pace di Cateau-Cambrésis. Progetti e iniziative
rivelavano, infatti, anche un altro limite: quello constituito dalla gelosia
reciproca tra gli stati della penisola, che non era solo gelosia di titoli, ma
prosecuzione dell´antica lotta contro la preminenza di qualsiasi di essi,
conclusasi prima con l´equilibrio sancito dalla pace di Lodi nel 1454 e poi con
la preminenza straniera. Nel caso di tentativi di preminenza, come ripeteva nel
1609 il duca di Mantova, tutti sarebbero stati d´accordo con la corona spagnola
nel respingerli. Lo stesso criterio di rimanere, pr cuanto era ancora
possibile, equidistanti tra Francia e Spagna, come igualmente pensavano un
Cosimo I e un Emanuele Filiberto, era destinato a restare alquanto astratto
nell condizioni in cui si svolgeva la política internazionale del tempo.
L´assenza di un pericolo francese a causa delle lote interne in Francia, un non
ancora pino manifestarsi della dramaticità
irreversibilità della rivolta olandese, la tranquilità prevalente in
Germania dopo la pace di Augusta (1555)
toglievano, da un lato, slancio anche all´iniziativa spagnola; dall´altro lato,
la constante pressione turca nel Mediterraneo rese questo mare, di fatto, il
centro di gravitazione della política di Madrid. Questa fase culminò nel 1571
con la battaglia di Lepanto. Nella critica recente si tende a smiuirme il
significato. Si attribuisce perciò ad altri elementi l´accentuazione dl l
´interesse per le questioni atlantiche ed europe pccidntali, con il relativo
attenuarsi dll´interesse per il Mediterraneo, nella política spagnola intorno
al 1580: urgenza della questione portoghese per i diritti vantati da Filippo II
alla successione di quella corona, che, infatti, ottenne nel 1580; acuirsi approfondirsi della ribellione olandese;
necessità di fare i conti con i protestanti inglesi e francesi, questi ultimi
arrivati a consguire il trono per la prevedibile successione di Enrico di
Borbone all´ultimo valois, Enrico III. Quanto ai Turchi, essi sarebbero stati attrati ad est
dall´incalzare della minaccia persiana. L´accordo che cossì si
profilava tra il Re Cattolico e il sultano sarebbe stato, tuttavia, difficile
ad immaginarsi, se no vi fosse stata Lepanto. Del resto, la pressione turca
proseguí attivamente, mettendo in difficoltà soprattutto Vnezia, che nel corso di
un secolo, tra il 1573 e 1669, perse con Cipro e con Creta i suoi ultimi
maggiori domini orientali. Lepanto rassicurò Madrid sulla superiorità marittima
dei pasi cristiani, mentre ai Turchi, al di là
delle valutazioni che ne diedero, dimostrò che uno sforzo egemonico nel
Mediterraneo centrale e orientale avrebbe incontrato ostacoli non minori che in
altri settori, a cominciare da quello danubiano, per un´ulteriore spansione
della potenza ottomana.
L´atenuarsi dell´interesse spagnolo per il Mediterraneo
fu, comunque, un colpo assai negativo per gli stati italiani. Ne veniva
confermata la retrocessione di quel mare ad uno spazio di importanza secondaria
rispetto all´Atlantico. Scemaba il bisogno che la Spagna aveva di alleati
navali mediterranei; e ciò propio mentre essa stssa si dotava di una flotta che
la esimeva largamente dalla necessità di ingaggiare navi e uomini di altri
paesi. Perciò l´intensificazione di sforzi italiani in questo settore veniva
privato improvisamente di grande parte del suo significato político ed
económico. Il fatto mette in luce il ruolo nettamente subordinato delle otenze
italiane nel determinare la circonstanze in cui la loro política e le loro
prospettive si dovedano sviluppare. Ancora una volta, le attività, gli sforzi,
le iniziative, e anche le realizzazioni di tanto in tanto conseguite,
dimostrando che la valutazione tradizionale della storia italiana dopo la
conclusione delle “guerre d´Italia” no è suscettibile di facili revisioni.
Nessuno ha mai pensato che si trattasse di una storia immobile; e le
definizioni di “secolo senza política” o “senza storia” sono distorcenti. Ma,
certo, l´egemonia spagnola pesava nel Mediterraneo occidentale e in Italia
ancor più che in Europa. Che i principi italiani no desistessero, ciononostante,
dalla ricerca di spazi e di novità è dimostrato propio da come essi cercarono
di proffitare delle difficoltà che Madrid incontrava nel nuovo esccachiere
oceánico e continentale in cui adesso era più impegnata. La stessa pace dovuta,
nella penisola italiana, alla egemonia spagnola dava loro una sicurezza di
fondo che era mancata il altri peiodi, mentre quella che è stata definita
“l´estate di San Martino dell´economia italiana” assicurava al paese una
prosperità che moltiplicava anche le richezze dei principi. Non sorprende,
quindi, che a metà degli anni ottanta il già citato amabasciatore veneto a
Madrid si riferisse, oltre a la gara di titoli e di precedenze fra i principi
italiani, anche “ai tanti legami di parentati che sono fra di loro e alle ricchezze
grande alle qualli sono pervenuti”, per cui essi non apparivano “più tanto
ossequienti ed obbedienti al Re come già erano, perndo loro d´esser atti
ciascuno a difendersi da per sé e a spiegar quella bandiera” che ad essi più
piaceva, evedendo in ciò il “frutto della lunga pace d´Italia”. L´ambasciatore
aggiungeva che, per questo, “ad alcuno de principali ministri” dispiaceva
quella pace. Egli raccoglieva così l´eco di considerazioni facili ad avanzarsi
verso Filippo II negli anni in cui egli diresse verso i protestanti di Francia,
Inghilterra e Olanda il suo sforzo maggiore.
Furono per il re di Spagna anni di successi e di
insuccessi. Alla fine, però, gli insuccessi dovettero contare più dei
successi, e già a la fine degli anni ottanta, con la rotta della Invencible
Armada sulle coste inglesi e col rafforzamento della Unione di Utrech in Olanda
e di Enrico di Borbone in Francia, appariva chiaro che il primatospagnolo non
significava per Madrid la ossibilità di imporre incondizionatamente in Europa
le propie vedute e volontà.
A questa vera e propia crisi della posizione europea
preminente della corona spagnola un contributo di rilievo venne propio
dall´Italia, negli anni novanta del secolo, col pontificato di Clemente VIII,
iniziatosi nel gennaio del 1592. Il suo nome era stato fatto in Conclave, in
sottordine a quello del cardinale di Santa Severina, dagli stessi Spagnoli. Ma
il papa Aldobrandini no solo apparteneva ad una tradizione di grande famiglie
toscane radicatamente filofrancesi, bensì aveva ben chiari due ponti
fundamentali: e, cioè, la necessità di non permetter ch, a causa della
successione di un Borbone protestante, la corona francese lasciasse il campo
cattolico, come mezzo secolo prima era accaduto in Inghilterra con Enrico VIII;
e, d´altra parte, l´opportunità, per la Curia romana, che nel campo cattolico
non vi fosse, a farla da protettrice della causa della Chiesa, ma anque da
padrona di essa, una sola grande potenza cattolica, e che la Francia tornasse
perciò al più presto a bilanciare lo strapotere della Spagna. Enrico IV,
succeduto ad Enrico III, già nel 1598, ma non riconosciuto dalla Lega
Cattolica, che certo rappresentava la maggioranza del paese fedele alla
confessione romana, abiurava definitivamente nel 1593 il protestantesimo e si
convertiva alla fede cattolica. “Parigi val bene una messa”, sarebbe stato il
motto spregiudicato del re di Francia i quella occasione. Ma egli sapeva che
quella messa necessitava del consenso della Chiesa, e perciò già da prima
dell´abiura aveva cercato l´intensa con Roma, contando sulla mediazione della
Toscana e di Vnezia. Alla corte romana le simpatie per lui erano forti: lo
stesso confessore del papa, storico della Chiesa, Cesare Baronio, ne era acceso
fautore. Clemente VIII manovrò prudentemente, senza venir meno ai suoi obblighi
verso la Spagna, ma ache senza secondarme il disegno di collocare sul trono
francese l´infanta Isabella, quale nipote di Enrico II, e lasciando libero il
campo alle forze che in Fransica si battevano per una riconziliazione
nazionale. Alla fine, nel dicembre del
1595 il papa concesse ad Enrico IV l´assoluzione che ne avallava sul pienao
religioso l´ascesa al trono francese. Nella successione di Ferrara tre anni dopo
si vide già quanto contasse per uno stato italiano il poter fare affidamento
sull´appoggio di una Francia in grado di recuperare il suo ruolo di potenza
antagonista della Spagna. La presenza rinnovata di Parigi sulla scena
internazionale si faceva sentiré anche negli rquilibri interni ai vertici del
mondo ecclesiastico. Enrico IV si conciliò il favore dei Gesuiti con l´aiutarli
nel conflitto, allora in corso tra essi e i Domenicani, acause delle polemiche
suscitate dal Molina sul problema della grazia. I Domenicani difendevano,
sostenuti da Madrid, l´ortodossia tomística. Il papa pure appoggiava i Gesuiti,
che nel 1608 poterono tornare in Francia, da cui erano stati banditi nel 1594
per la loro opposizione al re pur dopo la conversione. I problema dei Gesuiti
furono gran parte del dibattito romano negli anni novanta. Generale della
compagnia era dal 1581 il napoletano Claudio Acquaviva. Clemente VIII, dopo un
iniziale appoggio alla pressione di Madrid contro Acquaviva, fu in seguito,
nonostante la sua propensione per le più vicino ai Gesuiti, che, sostenuti ora
anche da Enrico IV, non furono da lui condannati. Egli pot´così fingere anche
da mediatore tra le due corone per la pace di Vervins nel 1598 e tra la
Francia il duca di Savi”.oia per la
questione di Saluzzo e per il ttaratato di Lione (1601). I successi sul piano
europeo rafforzarono la posizione dl papa anch nel governo nella Curia romana e
dello Stato Pontificio. Sulle congregazioni cardinalizie egli affermò
gradatamente un centralismo molto personalizzato. Il Ranke ricorda che
“all´inizio del suo pontificato le interpellava, anche se spesso non seguiva
poi le loro decisioni; poi comunicava loro le questioni solo poco prima della
loro risoluzione; i concistori servivano più a ppublicare una dezisione che a
consigliarla; infine affidò loro questioni di secondo piano o formalità”. Cossì
pure acadeva pero lo Stato Pontificio: “erano imposte tasse senza che si
consultasse nessuno, l´entrate dei comuni erano sottroposte ad una particolare
vigilanza, i baroni erano sotto il peso di una rigidissima giurisdizione, no si
teneva piû conto della nobile origine e dei privilegi”.
Con gli anni assune, tuttavia, un peso sempre maggiore il
cardinale nipote del papa, Pietro Aldobrandini e ciò guadagnò alla familia del
pontefice`numerose ostilità, fra cui quella dei Farnese. E poiché questi erano
appoggiati dagli Spagnoli, gli Aldobrandini ne furono indotti ad accentuare
ancor più la loro línea filofrancese, spingendosi fino a vagheggiare una lega
di stati italiani contro la Spagna: progetto, comunque, vanicato dalla norte di
Clemente VIII nel 1605.
Il successore, che fu il cardinale
Borghese, assunse il nome di Paolo V. La Potenza della casata del papa era
dimostrata del fatto che, come l´elezione di Clemente VIII era stata propiziata
dal cardinale Montalto, nipote di Sisto Vlo fu dal cardinale Aldobrandini. Il
tono delle relazioni ecclesiastiche e internazionali del papato si fece più
duro. Le qustioni insorte con Venezia portarono Paolo V alla intransigente
affermazione del diritto pontificio a dare disposizioni e ordini ai governi dei
paesi cattolici, pena la scomunica e l´interdetto dalle cerimonie religiose.
Venezia, le cui ragioni furono difese da fra´Paolo Sarpi, resisté su tutta la línea.
Il problema richiese la mediazione delle due grandi potenze cattoliche presso
le quali erano forti le correnti favorevoli alla guerra; estremisti cattolici in Spagna, protestanti
in Francia. Prevalsero, però, il debito de lealtà verso Roma che Enrico IV non
poteva non sentiré e l´orientamento pacifista sopravvenuto nel governo
sapagnolo dopo la norte di Filippo II nel 1598. Le due parti si avviarono ad un
accordo. Paolo V ne concluse che “conveniva per servitio d´Italia che fosse
sempre buona intelligenza fra (la Santa) Sede e (la) Repubblica”. E, in
effetti, Venezia e Roma rimanevano i soli stati italiani che, malgrado i limiti
imposti dalle circostanze, avevano una ancora non trascurabile autonomía nelle
questioni internazionali.
All´inizio del scolo XVII ciò risaltava ancora di più,
data la già accennata tendenza del governo del nuovo re di Spagna, Filippo III,
alla pace. Era una tendenza pressocché obbligata anche per le condizioni
finanziarie fi Madrid: nel 1697 Filippo II aveva dovuto dichiarare ancora una
volta l´insolvenza della corona spagnola e la sua impossibilità di onorarne gli
impegni. Del resto, Olanda e Inghilterra apparivano ormai troppo consolidate
dall´insuccesso dei grandi tentativi del re defunto contro di loro, mentre con
la conversione di Enrico IV la corona francese aveva ritrovato una sicura
condizione di rilancio. Restavano –della grande política di Flippo II- il
contenimento della spinta turca nel Mediterraneo, l´acquisizione del Portogallo
a la sua corona, il recupero dei Paesi Bassi meridionali, il rafforzamnto l´estension dei grandi domini d´oltremar. Era
abastanza perché nessuno allora si facesse illusioni su un venir meno del
primato sapgnolo in Europa, in generale, e in Italia, in particolare. Quando
´assassinio di Enrico IV nel 1610 precipitò di nuovo la monarchia frencese in
una crisi profonda, la monarchia spagnola ebbe modo di sentirsi ancora più
sicura. I principi italiani che avevano puntato su una rápida ripresa della
grande azione di Parigi (i Medici col matrimonio di Maria con Enrico IV, Carlo
Emanuele di Savoia con l´alleanza offensica streta poco prima della norte di
Enrico) dovettero ancora una volta prendere atto che la loro dimensione li
condannava ad un ruolo fatalmente subordinato: con la nuova crisi della
monarchia frencese rientrarono ancje i loro progetti. L´intersificarsi in
Italia dai primi anni del secolo XVII in poi di una lettratura antispagnola
tradiva la contraddizione tra una presa di coscienza sempre più chiara di ciò
che l´egemonia spagnola significava per la vita autónoma degli stati italiani,
da un lato, e il carattere vlleitario dei mezzi che si auspicavano per ridurre,
se non estinguere, la signoria di Madrid nella penisola, dall´altro.
In conclusione,
continuavano, perciò, le condizioni che già da quasi un secolo rendevano
difficili le rlazioni internazionali degli stati italiani.La stessa altalen tra
Francia e Spagna era meno facile di quanto possa sembrare a prima vista, anche
se il ritorno della Francia ad una política di grande potenza era, da Enrico IV
in poi irreversibile e consentiva certo molto più movimiento che non nel
periodo delle guerre di religione.Venzia, ad esmpio, tendencialmente filofrancese
e avversaria degli Asburgo in Dalmazia, doveva, tuttavia, tener contro delle
esigenze della lotta contro i Turchi alla quale sia gli Asburgo di Vienna sul
Danubio che gli Asburgo di Madrid nel
Mediterraneo erano cointeressati. Roma conservò con Paolo V e col suo
successore Gregorio XV un roientamento amiche vole verso Parigi, ma era troppo
interessata alla lotta contro il Protestantesimo per non fare il massimo conto
della Casa d´Austria. IN fondo, l´appoggio maggiore la Francia finiva col
trovarlo nel Piemonte, ossia nell´unico stato italiano che avesse raggiunto
dopo Cateau-Cambrésis uno status e una dimensione maggiore che prima di quella
pace: solo all´inizio del secolo XVIII l´orientamento sabaudo sarebbe davvero
mutato. La stessa Toscana, imparentata attraverso Caterina e Maria de´Medici
con la Casa di Francia, si sarebbe allineata appieno con Madrid e Viena durante
la guerra dei Trent´anni; e così il duca di Modena. Maggiori furono le
oscillazioni di Parma e di Mantova, senza però alcuna fortuna né per i Farnese,
né per i Gonzaga. In sostanza, per tutto il secolo XVII la carta política dell´Italia
non mutò, anche se l´ingerenza francese crebbe, nella penisola, costantemente,
e anche se ad essa si aggiunse, anzi, quella austriaca. La stessa política pontificia
già a metà del secolo XVII vedeva declinare il suo residuo ruolo europeo; e lo
stesso accadeva, all´inizio del secolo XVIII, per Venezia.
Ciò mette ulteriormente in rilievo gli anni tra il secolo
XVI e il XVII in cui dall´Italia venne ancora un contributo fondamentale alla
grande política europea. Le grandi città italiane (da Roma cui si contrapponeva
Napoli, a Venezia, cui si contrapponeva Milano; da Firenze a Parma, Modena e
Mantova, in relazioni anche di perentela con le grandi corti europee; dalla
vecchia Genova, che attraversava il periodo più intenso delle sue tortune
finanziarie, alla giovane Torino, che si impose súbito come un centro dinamico
e imprecondibile della política italiana) rimasero vive e vitali. Gli splendori
del rinascimento non apparivano attnuati nell´opinione comune sia italiana che
europea. La vita artística e culturale animava gli interessi delle oligarchie
che in ese dominavano non meno del fasto mondano. Gli aspetti deteriori del
privilegio sociale e di una crisi morale di fondo ne erano, perciò, largamente
velati e nascondevano la realtà di un paese che andava gradualmente perdendo
anche la prosperità di una volta.
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Caravaggio
e il suo tempo, Milano, Electa Napoli, 1985.
Caravaggio
1598 – Olio su tela – Lugano, collezione Thyssen-Bornemisza
Ragazzo
che monda un frutto – olio su tela – collezione privata
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