TRE DONNE STRANIERE
FRA GLI ANTENATI DI GESU’
Un percorso sulla figura dello “straniero” nella
Bibbia
Prof. Giorgio
Brandone, liceo classico D’Azeglio.
San Matteo, Evangeliario di Lindisfarne
VIII
secolo, British Library, London
Il percorso didattico qui proposto vuole
essere un invito ad accostarsi alla lettura della Bibbia come testo
storico, documento letterario e libro che spesso suggerisce riflessioni di
cogente attualità.
Prendendo spunto dalla genealogia di Gesù, come è
presentata in particolare nel Vangelo di Matteo, saremo portati ad analizzare
tre figure femminili, quella di tre donne straniere, non appartenenti al popolo
d’Israele: Tamar, Rut, Betsabea. Nella storia del popolo ebraico, come nella
storia di tutti i popoli, l’incontro con lo straniero non
è solo uno scontro, un momento di conflitto, ma spesso diventa, o può
diventare, occasione per una crescita, per uno sviluppo storico positivo, per una messa in discussione del proprio
modo di vedere le cose, per una forma di apertura all’ “altro”.
Mentre scrivevo queste righe sono stati pubblicati
in un volumetto delle Edizioni Paoline (Enzo BIANCHI – Carmine DI SANTE – Paolo
RICCA – Elmar SALMANN – Rosanna VIRGILI, Lo straniero: nemico, ospite,
profeta?, Milano, Paoline, 2006), i testi delle cinque conferenze che si
sono tenute nella primavera del 2006 a Milano, in San Carlo al Corso, con il significativo
titolo di Incontro
allo straniero. Dialoghi di Quaresima. Nell’introduzione il curatore, il padre servita
Ermes Ronchi, sottolinea come la lettura della Bibbia sia una scuola di xenofilia (“amore
dello straniero”). Le conferenze, in forma di lectio divina, tracciano
una sorta di percorso, un itinerario di lettura della Bibbia, che “dalla
paura (lo straniero nemico?), giunge all’accoglienza (ospite?) e infine può
arrivare alla rivelazione di un possibile evento salutare (profeta?)” (op.
cit., p. 6).
La
lezione della Bibbia è quella dell’accoglienza, dell’ospitalità, se
vogliamo del meticciato.
Leggendo molti passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, ci accorgiamo che
anche il concetto di “popolo eletto” non ha caratteristiche razziali esclusive,
che non esistono popoli chiusi nel loro recinto, non esistono “razze pure”. Fra
gli antenati, anzi fra le antenate (e non si dimentichi che per gli ebrei
appartiene al popolo ebraico chi nasce da madre ebrea) di Gesù e del re Davide
che, secondo le genealogie, è un avo di Gesù, ci sono donne straniere,
appartenenti a popolazioni nemiche per tradizione d’Israele e con cui si sono
susseguite guerre e contrapposizioni d’ogni genere.
1. Le genealogie di Gesù nei Vangeli
Il popolo
ebraico è molto legato alle genealogie: al gusto tipico dei popoli antichi del conservare memoria degli
antenati, si aggiunge la volontà di ricollegarsi ai patriarchi, i depositari
della promessa di Dio, sottolineando la continuità nella fedeltà al patto
stretto con Dio.
I primi otto libri del Primo libro delle Cronache, ad esempio, sono interamente dedicati alle genealogie delle tribù
d’Israele. E’ testimoniato, poi, nel periodo post-esilico, l’uso di “registri
di famiglia” in cui venivano conservati i nomi degli appartenenti al gruppo
familiare.
La genealogia è anche un genere usato nella storiografia biblica quando
si tratta di riassumere lunghi periodi: ad esempio nel capitolo quinto della Genesi
si ricorda la discendenza di Adamo fino a Noè (“Questo è il libro della
genealogia di Adamo” Gn 5, 1) per collegare i primi capitoli dedicati
alla creazione a quelli in cui si racconta l’episodio del diluvio.
Anche negli evangeli
troviamo due genealogie di Gesù: la prima, in forma discendente, comprende
i versetti 1-17 del primo capitolo del Vangelo secondo Matteo e propone
i nomi degli antenati di Gesù da Abramo a Giuseppe; la seconda, invece, in
forma ascendente, va dal versetto 23 al versetto 38 del terzo capitolo del Vangelo
di Luca e risale fino ad Adamo, figlio di Dio. Sono due genealogie di
tradizione indipendente: nella prima si ricollega Gesù al re Davide e ad Abramo
(“Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” Mt 1,
1); nella seconda, invece, come detto, si elencano gli antenati di Cristo
risalendo all’indietro, fino alle origini dell’umanità (“... figlio di Enos,
figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio.” Lc 3, 38).
Per
quanto ci si sia sforzati di trovare una concordanza fra le due genealogie, non
è possibile arrivare ad una soluzione (i nomi ricordati sono spesso molto
diversi...): è meglio, allora, leggerle in parallelo, sottolineando i caratteri
comuni e le diversità, per proporre poi un’interpretazione complessiva di esse.
E’ quello che cercheremo di fare.
Mt
1, 1-17
La
genealogia di Gesù nel Vangelo di Matteo ha un carattere sistematico
dal momento che è divisa in tre parti aventi la medesima estensione:
vv. 1-6a – i 14
antenati di Gesù da Abramo al re Davide;
vv. 6b-11 – i 14
antenati di Gesù dal re Davide a Ieconia “al tempo della deportazione in
Babilonia”;
vv. 12-16 – i 14
antenati di Gesù dall’esilio babilonese a “Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla
quale è nato Gesù chiamato Cristo”.
E’ interessante sottolineare quattro aspetti del testo:
·
si
tratta di una genealogia di Giuseppe e non di Maria (anche se Maria
viene ricordata, ma come sposa di Giuseppe);
·
mette
in luce, in modo particolare, la discendenza davidica di Gesù (e dalla
stirpe di Davide, secondo i profeti, doveva nascere il Messia);
·
propone
una visione incentrata sul popolo ebraico, il popolo depositario
dell’alleanza;
·
si
sviluppa seguendo uno schema in cui ritorna per tre volte il numero
quattrodici, multiplo di sette che indica pienezza, completezza.
·
Nel testo greco il capitolo inizia con
le parole βίβλος γενέσεως (“liber generationis” nel latino della Vulgata):
il termine γένεσις è lo stesso che dà il nome al primo libro della Bibbia,
il libro della Genesi, e l’espressione βίβλος γενέσεως richiama “queste
sono le origini (in ebraico tôledôt, cioè “discendenza”, γένεσις
appunto) del cielo e della terra, quando vennero creati” Gn 2, 4a. L’origine,
la discendenza, la dimensione storica, in altre parole, sono nella Bibbia
una dimensione fondamentale: nella Bibbia non si raccontano favole
mitologiche, come avviene talvolta nei testi religiosi di altri popoli, ma
avvenimenti storici, quelli di un popolo che ha creduto di incontrare Dio e
quelli di un uomo (il figlio di Dio, per i credenti) che è realmente vissuto in
un’epoca ben precisa e che ha predicato l’evangelo sulle strade della
Palestina.
San
Luca, Vangelo di Sant’Agostino
Cambridge, Corpus Christi College,
MS 286
Lc
3, 23-38
Mentre
il Vangelo di Matteo si apre con la genealogia di Gesù, Luca la pone
alla fine del terzo capitolo, dopo l’episodio del battesimo di Gesù al
Giordano. La collocazione non è casuale: al momento del battesimo, ricorda
Luca, lo Spirito Santo scende su Gesù in forma di colomba e si sente una voce
dal cielo che dice “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”
(Lc 3, 22). Con l’episodio del battesimo si vuole sottolineare la
missione messianica di Gesù: a questo punto si inserisce la genealogia
che ricollega Gesù ad Adamo e lo propone, quindi, come nuovo Adamo, come
Messia-salvatore non solo del popolo ebraico, cui pure appartiene, ma
dell’umanità tutta.
Anche in questo brano possiamo
sottolineare alcuni aspetti particolari:
·
si
tratta, come in Matteo, di una genealogia di Giuseppe (si dice che Gesù “era figlio, come si
credeva, di Giuseppe” Lc 3, 22);
·
si
sottolinea, come abbiamo detto, la discendenza di Gesù non
solo dal re Davide e da Abramo, ma da Adamo;
·
è un semplice elenco di nomi
senza uno schema sistematico di fondo, presente invece in Matteo.
A
questo punto, dopo aver letto i due brani con una certa attenzione, abbiamo
alcuni elementi per proporre un’interpretazione complessiva dei testi:
·
in
primo luogo si deve sottolineare che si tratta di testi che, al di là della
verità storica, vogliono trasmettere un messaggio raccolto dai redattori dei
due brani: il Gesù che ha percorso le strade della Palestina era veramente
il Messia atteso dal popolo ebraico (la discendenza davidica lo testimonia
con forza)
·
Gesù è uomo e come ogni uomo appartiene ad una
famiglia,
ha degli antenati
·
il messaggio di Gesù si rivolge in primo luogo agli
ebrei,
al cui popolo Gesù apparteneva, ma anche a tutti gli uomini, in quanto
Gesù fa parte della comune stirpe umana nata da Adamo
·
la salvezza che Gesù ha portato, quindi, è
salvezza per gli ebrei e per tutte le genti.
·
E’ interessante fermarsi a riflettere
sulla figura di Giuseppe a cui tutte e due le genealogie fanno
riferimento:
·
sia nell’evangelo di Matteo sia in
quello di Luca si parla della nascita di Gesù da Maria e della concezione
verginale (Mt 1, 18-24; Lc 1, 26-37. 2, 1-20). Come potrebbe,
quindi, Gesù essere figlio di Giuseppe se, come si dice esplicitamente nel
Vangelo, “quel che è generato in lei (Maria) viene dallo Spirito Santo.”? (Lc
1, 20)
·
La Bibbia di Gerusalemme intitola il
paragrafo dell’evangelo di Luca in cui un angelo appare a Giuseppe e lo invita
a prendere con sé Maria incinta di Gesù “Giuseppe assume la paternità legale di
Gesù”. In effetti pare proprio questa la chiave per risolvere il problema che
ci siamo posti: secondo il diritto ebraico esisteva una paternità naturale, ma
anche e soprattutto una paternità “legale”. Gesù è figlio di Giuseppe non
secondo la carne, ma giuridicamente, secondo la legge ebraica: in effetti la
paternità legale, secondo il diritto del tempo (per adozione, ad esempio, o
seguendo la legge del levirato – di cui parleremo più avanti), garantiva tutti
i diritti ereditari. Quindi Gesù agli occhi di un ebreo era giuridicamente
figlio di Giuseppe, anche se non lo era biologicamente.
·
·
·
Ma un elemento ancora attira la nostra
attenzione leggendo la genealogia di Gesù nel vangelo di Matteo: la presenza
di tre nomi femminili che non sono affatto menzionati da Luca. In effetti
si dice che “Giuda generò Fares e Zara da Tamar” (Mt 1, 3), che “Booz
generò Obed da Rut” (Mt 1, 4) e che “Davide generò Salomone da
quella che era stata la moglie di Urìa” (cioè Betsabea) (Mt 1, 6).
Tamar, Rut, Betsabea: tre donne in un elenco di uomini. Dal momento che
la discendenza legale era in linea maschile (e come abbiamo detto Gesù viene
detto figlio di Giuseppe e non di Maria), possiamo pensare che il ricordare
queste donne abbia un significato particolare. E’ quello che cercheremo di
dimostrare.
2. La storia di Tamar
Horace Vernet, Jehuda and Tamar
1840, Wallace Collection,
London
La storia di Tamar è contenuta nel capitolo
38 del libro della Genesi: Giuda, figlio di Giacobbe, separatosi dai
suoi fratelli, si è stabilito presso un uomo di nome Chira, ha conosciuto la
figlia di un cananeo, l’ha sposata e da lei ha avuto tre figli, Er, Onan e
Sela. Ha scelto poi Tamar, donna che la tradizione considera cananea, come
moglie per il suo primo figlio, Er. Ma Er è presto morto. Giuda, allora, ha
invitato il secondo figlio, Onan, a sposare Tamar e a dare una discendenza al
fratello, secondo la legge del levirato. Ma Onan, sapendo “che la prole non
sarebbe stata considerata come sua”, non vuole avere figli. Dio lo fa morire e
Giuda rimanda Tamar da suo padre. Muore poi la moglie di Giuda e Tamar, saputa
la notizia, si copre con un velo e va incontro a Giuda: “aveva visto infatti
che Sela era ormai cresciuto, ma che lei non gli era stata data in moglie”.
Giuda non la riconosce, poiché si era coperta la faccia, la scambia per una
prostituta e per andare con lei le promette un capretto, lasciandole in pegno
il sigillo, il cordone e il bastone. Tamar si unisce a Giuda, concepisce un
figlio e si allontana, riprendendo poi le sue vesti vedovili. Giuda manda un
amico con un capretto per cercare la donna e riavere indietro i pegni lasciati
a lei. Ma l’amico non trova nessuna prostituta. Tre mesi dopo giunge a Giuda la
notizia che sua nuora si è prostituita ed è incinta. Giuda comanda che sia
bruciata, ma Tamar gli manda a dire che è incinta dell’uomo a cui appartengono
un sigillo, un cordone e un bastone. “Giuda li riconobbe e disse: “Essa è più
giusta di me, perché io non l’ho data a mio figlio Sela” (Gn 38, 26).
Tamar partorì due gemelli, Perez e Zerach (quelli che nella genealogia di
Matteo sono chiamati Fares e Zara). Questi gli avvenimenti ricordati nel libro
della Genesi.
La storia di Tamar è interessante per più motivi:
·
in primo luogo si sottolinea la posizione
particolare della famiglia di Giuda (e della tribù che da essa deriva), che
ha una storia singolare e avrà un destino diverso da quello delle altre tribù
d’Israele: dalla stirpe di Perez, infatti, nascerà il re Davide e il Messia
·
in secondo luogo si mette in evidenza come Giuda
si sia alleato con i cananei e si sia unito loro, scegliendosi una
moglie cananea, da cui ha avuto tre figli
·
la tradizione, poi, sottolinea come anche
Tamar sia di origine cananea.
La stirpe regale d’Israele, la casa di Giuda da cui dovrà nascere il
Messia, in altre parole, ha origine dall’unione di un uomo e una donna
appartenenti a popolazioni diverse, da un ebreo e da una cananea.
I cananei
|
Il termine
“cananeo” è un termine collettivo e generico che si riferisce alle
popolazioni che abitavano la Palestina prima che vi si stabilissero le tribù
israelitiche. I rapporti fra gli israeliti e i cananei non furono facili: le
popolazioni “cananee” erano popolazioni stanziali, che abitavano per lo più
città fortificate, praticavano l’agricoltura ed erano dedite a forme
religiose profondamente disprezzate dagli israeliti. In particolare gli
israeliti aborrivano il politeismo, l’adorazione di divinità femminili, come
la dea-madre Astarte, la figura di un giovane dio che rappresentava l’annuale
nascita e morte della vegetazione, il culto di Baal e le forme di
prostituzione sacra, molto diffuse in quel mondo. I rapporti con i cananei
influenzarono però il culto ebraico: gli israeliti adottarono dal mondo
cananeo le grandi festività agricole. |
E’
chiaro, quindi, che la storia di Tamar non ha un significato “neutro”: nella
storia di questa donna cananea è adombrato il momento dello scontro (gli
israeliti che si stanziano in luoghi già abitati e che devono necessariamente
fare i conti con le popolazioni preesistenti), ma anche dell’incontro,
dell’unione e della fusione tra genti diverse.
La legge del levirato
|
Nell’episodio
di Tamar si fa riferimento alla legge del levirato: Giuda, dopo la morte di Er, chiede ad
Onan di sposare Tamar e di dare una discendenza al fratello. E’ questa la
forma più semplice della legge del levirato: nel mondo ebraico, in cui la benedizione
di Dio era garantita dai figli, i fratelli di chi moriva senza figli dovevano
sposarne la vedova. Il primo figlio sarebbe stato legalmente figlio del
fratello morto. Troviamo una chiara
formulazione di questa legge nel libro del Deuteronomio: “Quando i
fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la
moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato
verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il
dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il
nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele.”
(Dt 25, 5-6) Della legge del
levirato si parla anche nel Nuovo Testamento, nell’episodio del Vangelo di
Matteo in cui viene chiesto a Gesù, da alcuni sadducei, che negavano la
resurrezione, di chi sarebbe stata moglie nella resurrezione una donna che
avesse sposato sette fratelli rimasti senza discendenza (Mt 22,
23-32). Gesù riconoscerà la domanda come capziosa e proporrà una soluzione in
chiave spirituale. |
3.
La storia di Rut
Rut
segue Noemi
A Rut la Bibbia dedica un libro
intero, un libro breve (comprende solo 4 capitoli), la cui collocazione
all’interno della Bibbia stessa è discussa: la tradizione ebraica (Testo
Masoretico) pone il libro di Rut fra i così detti “Cinque Rotoli” (le
cinque Maghillôt o “rotoli festivi”: Rut, Cantico dei
Cantici, Qoélet, Lamentazioni, Ester) che vengono
letti durante le feste dell’anno (in particolare la lettura liturgica di Rut
avviene durante la festa di Pentecoste). Nella tradizione greca e poi latina
(quella della versione dei LXX e della Vulgata) il libro di
Rut si trova tra i libri storici, subito dopo il libro dei Giudici,
forse per le parole con cui inizia: “Al tempo in cui governavano i giudici...”
(Rt, 1, 1).
Il breve libro di
Rut racconta la storia di una donna moabita, che abbandona il suo popolo
per seguire la suocera ebrea a Betlemme. Da Rut nascerà un bambino, Obed,
che sarà padre di Iesse, il padre del re Davide.
La lettura del libro,
breve e abbastanza facile, può consentire alcune riflessioni sui caratteri
letterari del testo biblico: in effetti, da quando si è cominciato a
considerare la Bibbia non più soltanto come un testo sacro, ma si è
appuntata l’attenzione sugli elementi letterari dei vari libri che la
compongono, il racconto del libro di Rut è parso esemplare per bellezza
e arte poetica. In questo senso, ad esempio, Herder e Goethe hanno celebrato
questo breve testo. Per quanto riguarda il genere letterario il libro di Rut
può essere definito una “novella” o un “racconto didattico”, dal momento che
vengono presentate alcune figure esemplari con un chiaro intento educativo nei
confronti del lettore.
Ma al di là degli aspetti letterari del
testo, dalla lettura dello stesso possiamo trarre interessanti elementi di
tipostorico e spunti di riflessione ai fini del nostro discorso
generale, dal momento che si parla in esso in termini fortemente positivi di
una donna straniera.
Il libro può essere
diviso in “quattro blocchi narrativi principali, contenenti ognuno diverse
scene singole, collegate da interludi e incorniciate da una introduzione e da
una parte conclusiva” (per l’analisi letteraria del testo, seguo lo schema
proposto da Rolf Rentdorff, Introduzione all’Antico Testamento, Torino,
Claudiana, 1990 – pp. 341-343):
- Introduzione (Rt 1,
1-5)
Un uomo di Betlemme, Elimèlech, per sfuggire
alla carestia che imperversava nella terra d’Israele, andò a stabilirsi con la
moglie Noemi e i due figli, Maclon e Chilion, nella campagna di Moab. Elimèlech
morì e i due figli si sposarono con due donne del luogo, Orpa e Rut. Ma poi
morirono anche i figli e Noemi “rimase priva dei suoi due figli e del marito”.
- Primo blocco (Rt 1,
6-18)
Noemi, poiché aveva sentito dire che nella
terra d’Israele era tornata l’abbondanza, decide di ritornare a Betlemme. Parte
con le due nuore, ma poi, rivolgendosi loro, le invita a tornare indietro, a
casa delle loro madri, per cercarsi un nuovo marito. Le due donne dapprima
rifiutano, poi quando Noemi insiste dicendo che con lei non avranno un futuro,
poiché non ha altri figli da dare loro come sposi né ha speranza di averne,
Orpa bacia la suocera a torna indietro. Rut, invece, non vuole sentir ragione,
e afferma, anzi: “Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro
senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi
fermerò: il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio;
dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come
vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te.” (Rt 1, 16-17)
- Interludio (Rt 1,
19-22)
Noemi e Rut giungono a Betlemme, nel periodo
della mietitura dell’orzo.
- Secondo blocco (Rt 2,
1-17)
Noemi aveva un ricco parente da parte del
marito Booz: Rut, per mantenere se stessa e la suocera, decide di andare a
spigolare e per caso giunge in un campo che appartiene proprio a Booz, dove
inizia a raccogliere le spighe abbandonate dai mietitori. Booz, vista la donna
e dopo aver saputo che è la nuora di Noemi, la fa chiamare e la invita a
continuare a spigolare nei suoi campi, promettendole protezione e invitandola a
mangiare con i mietitori.
- Interludio (Rt 2,
18-22. 23)
La sera Rut racconta alla suocera Noemi che
cosa le è accaduto e le fa vedere il molto orzo raccolto. Noemi dice alla nuora
che Booz è un suo parente.
- Terzo blocco (Rt 3,
1-15)
Noemi, durante un colloquio con Rut, le
propone un piano: la invita a profumarsi, ad avvolgersi in un manto e ad andare
nell’aia dove Booz sta vagliando l’orzo. Quando l’uomo stanco, dopo aver
mangiato e bevuto, si sarà addormentato, Rut dovrà sdraiarsi ai suoi piedi e
coprirsi con la coperta di lui. Rut fa ciò la suocera le ha consigliato; quando
Booz nel mezzo della notte si sveglia trova la donna ai suoi piedi che gli
dice: “Sono Rut, tua serva; stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva,
perché tu hai il diritto di riscatto”. Booz loda Rut e le promette che farà
quanto lei vuole, anche se c’è un altro parente più stretto che ha il diritto
di riscattarla prima di lui.
- Interludio (Rt 3,
16-18)
Rut torna da Noemi e le racconta quanto è
successo.
- Quarto blocco (Rt 4,
1-12)
Booz alla porta della città incontra l’uomo
che ha il diritto di riscattare Rut prima di lui e, alla presenza di dieci
testimoni, gli dice che Noemi ha intenzione di vendere un campo che apparteneva
ad Elimèlech e che, acquistando il campo, avrà in moglie anche Rut. L’uomo
risponde di non poterlo fare e invita Booz a subentrare nel suo diritto. Booz,
allora, alla presenza dei testimoni, acquista quanto era appartenuto a
Echimèlec e prende in moglie Rut, “per assicurare il nome del defunto sulla sua
eredità e perché il nome del defunto non scompaia tra i suoi fratelli e alla
porta della sua città”.
- Conclusione (Rt 4,
13-17)
Booz sposa Rut e Rut partorisce un figlio. Noemi
“prese il bambino e se le pose in grembo e gli fu nutrice. E le vicine dissero:
‘E’ nato un figlio a Noemi!’.”
- Genealogia di Davide (Rt
4, 18-20)
Viene proposta la genealogia discendente di
Davide da Perez a Booz, a Obed e a Iesse, padre del re Davide.
Dalla lettura del testo emergono elementi diversi di tipo storico: non è
quindi lecito sostenere, come qualcuno ha fatto, che il libro sia una semplice
novella composta a scopo edificatorio.
Elementi storici
·
La legge del levirato
Nel
libro sono evidenti i riferimenti alla legge del levirato:
Noemi cerca di rimandare Orpa e Rut
dalle loro madri sostenendo che ha nessun altro figlio da dare loro come sposo
(un fratello avrebbe dovuto sposare la vedova del fratello);
Booz, parente prossimo di Noemi, deve sposare
la vedova del figlio di Elimèlech.
In
realtà nel libro di Rut le cose si complicano: si
è in presenza di una forma di legge del levirato un po’ particolare. Si fa
riferimento, infatti, al dovere del parente più vicino che riunisce due
obblighi diversi: quello di evitare la dispersione del patrimonio (deve
comprare il campo appartenuto ad Echimèlech) e quello di dare una discendenza
al parente defunto (deve sposare Rut). Booz non è, però, il parente più vicino:
subentrerà nel diritto-dovere di riscatto solo dopo la rinuncia del parente più
prossimo.
E’
interessante notare che Obed, nato da Rut, è legalmente
figlio di Noemi, tanto è vero che le vicine lo dichiarano ad alta voce: “E’
nato un figlio a Noemi!”.
·
Le carestie nel mondo antico
Nel
mondo antico, e nel mondo della Bibbia, molto legato al ciclo agricolo
stagionale, un periodo di carestia costituiva un episodio molto grave e
costringeva spesso ad emigrare in terra straniera in cerca di cibo per il
sostentamento di sé e della propria famiglia.
Nel
libro della Genesi, ad esempio, si dice: “Venne una carestia nel paese e
Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava sul paese” (Gn
12, 10). E ancora: “Venne una carestia nel paese oltre la prima che era
avvenuta ai tempi di Abramo, e Isacco andò a Gerar presso Abimèlech, re dei
Filistei” (Gn 26, 1). La storia di Giacobbe e dei suoi figli, poi, è
profondamente legata alla carestia: i fratelli di Giuseppe vanno in Egitto a
comprare il grano perché nel paese di Canaan c’era la carestia (la storia di
Giuseppe venduto dai fratelli, divenuto maggiordomo del faraone e incaricato da
questi di prendere provvedimenti per limitare i danni della carestia in Egitto
si trova negli ultimi capitoli del libro della Genesi - Gn
37-50).
·
I moabiti
I
moabiti, cui appartenevano Orpa e Rut, erano una popolazione che abitava ad
oriente del Mar Morto: un piccolo popolo con un piccolo stato. Con questa
popolazione i rapporti degli ebrei non sono sempre stati amichevoli:
inizialmente, quando gli israeliti avevano solo pochi insediamenti al di là del
Giordano, fra i due popoli c’erano condizioni quasi di pace, ma poi, con
l’estendersi delle terre della tribù di Gad, una delle tribù d’Israele, i
rapporti divennero tesi, segnati da continui scontri.
Nella Bibbia,
poi, i moabiti sono fatti segno di particolare disprezzo: nel capitolo
19, vv. 30-38 del libro della Genesi si parla dell’origine dei moabiti e
degli ammoniti dall’unione incestuosa delle due figlie di Lot con il loro
padre. Nei libro dei Numeri (25, 1ss.) si ricorda come le donne
moabite avessero spinto gli israeliti verso l’idolatria: “Israele si stabilì
a Sittim e il popolo cominciò a trescare con le figlie di Moab. Esse invitarono
il popolo ai sacrifici offerti ai loro dei; il popolo mangiò e si prostrò
davanti ai loro dei. Israele aderì al culto di Baal-Peor e l’ira del Signore si
accese contro Israele.” E l’ostilità nei confronti dei moabiti (e degli
ammoniti) si era trasformata in una precisa disposizione di legge: “L’ammonita
e il moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro
discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del
Signore; non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con
l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto e perché hanno
prezzolato contro di te Balaam, figlio di Beor, da Petor nel paese dei due
fiumi, perché ti maledicesse (si veda la storia di Balaam in Nm 22-24).”
(Dt 23, 4-5).
E’
chiaro che, se i rapporti fra moabiti e israeliti erano di questo tipo, anche
la storia di Rut, oltre a quella di Tamar, assume un’importanza particolare: Rut,
secondo la legge, non avrebbe potuto far parte del popolo eletto. Oltre a
sottolineare, come faremo, il motivo universalistico presente nel libro di Rut,
l’insistenza sull’origine della donna dalla terra di Moab può essere letta, in
un’ottica storica, in duplice modo:
-
da una parte si può sostenere, come fanno alcuni,
che proponendo la figura della straniera Rut come esemplare, si vuole reagire
alle critiche mosse alle origini moabitiche (e quindi straniere) della casa
reale di Davide (il libro potrebbe essere stato composto, perciò, nell’epoca
regia)
-
dall’altra si potrebbe vedere una critica al
divieto dei matrimoni misti da parte di Esdra e Neemia (anche in questo caso
quest’elemento potrebbe essere la base per la datazione del libro).
Le
tribù d’Israele
Spunti di riflessione
- Il
significato simbolico nei nomi
Nel
libro di Rut i nomi del personaggi hanno un significato simbolico:
Noemi vuol dire “mia dolcezza” (quando
Noemi torna a Betlemme vuole essere chiamata Mara, cioè “amarezza”, dato che la
sua vita sembra spezzata, priva com’è di una discendenza);
Elimèlech
significa “il mio Dio è re”;
Maclon
vuol dire “languore” e Chilion “consunzione”, nomi adatti a uomini morti
giovani;
Orpa
significa “colei che volge il dorso”: è la nuora che torna indietro alla sua
terra volgendo le spalle a Noemi;
Rut
vuol dire “amica”.
L’interpretazione
simbolica dei nomi non deve portare a concludere, però, che il racconto del libro
di Rut sia una semplice invenzione letteraria: gli elementi storici, in
effetti, molto forti, spingono in direzione di un’interpretazione diversa. Pur
sottolineando gli elementi letterari presenti nel testo, la critica non
considera il libro una semplice novella.
- La
sofferenza del giusto
Un’interpretazione
possibile del libro di Rut è quella che mette in luce la presenza,
in esso, del tema della sofferenza del giusto, tema presente molte volte
nella Bibbia: Dio spesso sembra “mettere alla prova” il giusto con una
serie di sventure per saggiarne la fedeltà (si pensi al libro di Giobbe). Se si
accetta questa interpretazione, la protagonista del libro non sarebbe tanto
Rut, quanto Noemi, che vede morire il marito e i figli e si viene a trovare in
una condizione di assoluta impotenza; alle donne di Betlemme che la riconoscono
chiamandola per nome, dopo il suo ritorno dalla terra di Moab, Noemi dice: “Non
mi chiamate Noemi, chiamatemi Mara, perché l’Onnipotente mi ha tanto
amareggiata! Io ero partita piena e il Signore mi fa ritornare vuota. Perché
chiamarmi Noemi, quando il Signore si è dichiarato contro di me e l’Onnipotente
mi ha resa infelice?” (Rt 1, 20-21) Ma, secondo la Bibbia, se
Dio mette alla prova il giusto con la sofferenza, non manca poi di premiarlo.
E’ ciò che avviene a Noemi quando Rut genera il figlio Obed: “E le donne
dicevano a Noemi: “Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare
un riscattatore, perché il nome del defunto (Elimèlech) si perpetrasse in
Israele! E sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia;
perché lo ha partorito tua nuora che ti ama e che vale per te più di sette
figli.” (Rt 4, 14-15).
- Il tema
della fedeltà
Un’altra
interpretazione possibile del libro di Rut è quella che mette in luce la
presenza in esso del tema della fedeltà. Fedeltà a più
livelli: la fedeltà di Dio che non abbandona Noemi ad un destino di infelicità
(com’era la condizione delle vedove al tempo); la fedeltà di Noemi nei
confronti di Dio (nonostante le sventure che l’hanno colpita, Noemi non si
ribella nei confronti della sorte e di Dio); la fedeltà di Rut nei confronti
della suocera, che diventa amore nei confronti di lei e del mondo da cui lei
proviene; la fedeltà di Booz che, nonostante le difficoltà, non viene meno a
quello che lui considera il suo compito, riscattare Rut, prenderla in moglie.
- Rut, la moabita
Ma
è sulla figura e sull’agire di Rut che si appunta in particolare la nostra
attenzione: Rut è una straniera, appartiene ad un popolo “impuro”, idolatra e
ostile ad Israele; è una donna e, quindi, si trova in una condizione di
inferiorità in un mondo maschile, com’era quello dell’Antico Testamento. Eppure
è su di lei che si concentra l’attenzione del libro, è da Rut che avrà origine
la casa di Davide, da cui nascerà Gesù.
Di
lei si parla in termini del tutto elogiativi: è colei che sceglie di
abbandonare la famiglia paterna, la sua terra, per seguire la suocera che lei
ama come una madre, ma che non le può promettere nulla, vedova e avanti negli
anni com’è. Da un legame d’amore fra una donna ebrea e una donna moabita avrà
origine un grande destino: la storia si serve di due figure marginali – una
vedova e una straniera – per i suoi progetti.
Rut è colei che
in nome dell’amore sa scommettere fino in fondo: “Non insistere con me
perché ti abbandoni e torni indietro senza di te – dice a Noemi -; perché dove
andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio
popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch’io e vi sarò
sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi
separerà da te.” (Rt 1, 16-17).
E
l’amore di Rut sarà oggetto di ricompensa, Booz la vorrà con sé, riconoscendone
e apprezzandone la generosità del cuore e dicendole: “Mi è stato riferito
quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai
abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo,
che prima non conoscevi. Il Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo
salario sia pieno da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei
venuta a rifugiarti.” (Rt 2, 11-12).
- L’interpretazione
allegorica del libro di Rut
Nella
storia il libro di Rut è stato oggetto di molte interpretazioni: una, in
particolare, può interessare la nostra riflessione, quella cristiana in chiave
allegorico-tipologica (secondo la quale si riferisce un episodio o un
personaggio dell’Antico Testamento alla realtà del Nuovo Testamento): Rut è
“tipo” della ecclesia ex gentibus, della Chiesa che nasce dal mondo
pagano abbandonando gli idoli per abbracciare la fede nel vero Dio. Questa
interpretazione è proposta dai Padri antichi come Origene, sant’Ambrogio, san
Giovanni Crisostomo, san Girolamo.
Ma
forse anche un’altra interpretazione è possibile: Rut per amore sceglie di
seguire la suocera, di convertirsi alla fede di lei, di diventare parte del
popolo di lei. E allora la sua origine, il suo essere straniera, passa in
secondo piano: l’ottica del libro di Rut è
un’ottica universalistica. La salvezza è per i tutti i popoli. Questa prospettiva
sembra anticipare i famosi versetti 26-29 dell’Epistola ai Galati di
Paolo: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché
quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è
più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora
siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.”
4. La storia di
Betsabea, la moglie di Urìa l’hittita
Artemisia Gentileschi, Davide e Betsabea
1636/38, Museum of Arts, Columbus
La terza donna straniera di cui si parla nella genealogia di Gesù all’inizio del Vangelo di Matteo è Betsabea, che viene indicata come la moglie di Urìa; dall’unione della donna con il re Davide nascerà Salomone.
- Davide,
passeggiando sulla terrazza del reggia, vede una donna molto bella che sta
facendo il bagno; gli viene detto che è “Betsabea, figlia di Eliàm, moglie
di Urìa l’hittita” (probabilmente un mercenario al soldo del re);
- Davide la
manda a prendere e concepisce un figlio con lei;
- venuto a
sapere che la donna è incinta, Davide fa chiamare Urìa, gli chiede notizie
della guerra e lo rimanda a casa sua, ma Urìa non accetta di entrare nella
sua casa perché non vuole mangiare e bere e dormire con sua moglie, mentre
gli altri soldati sono accampati in aperta campagna;
- Davide,
allora, lo rimanda al suo comandante con una lettera in cui lo invita a
far mettere Urìa in prima fila e a lasciarlo morire in combattimento;
- giunge a
Gerusalemme la notizia della morte di Urìa in combattimento; Betsabea,
passati i giorni del lutto, viene accolta nella casa di Davide, diventa
sua moglie e gli dà un figlio;
- il profeta
Natan viene mandato da Dio a Davide per rimproverarlo di quanto ha
commesso e per annunciargli le sventure che lo colpiranno come castigo
delle sue colpe;
- Davide
chiede perdono e il perdono gli viene concesso, ma il bambino muore;
- Davide ha
un secondo figlio da Betsabea, Salomone, che Natan chiama Iedidà (“amato
da Jahve”) e che salirà sul trono del padre a preferenza degli altri figli
di Davide.
Anche in questo caso ci troviamo di
fronte ad una donna straniera, la moglie di un hittita, che, per quanto non sia
esplicitamente detto, possiamo pensare hittita anch’essa. Del resto la
legge impediva che le donne israelite sposassero gli stranieri, in particolari
gli hittiti, considerati nemici da sterminare.
Si
dice, infatti, in Deuteronomio 7, 1- 6:
“Quando
il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso
e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli hittiti, i gergesei, gli
amorrei, i perizziti, gli evei, i cananei e i gebusei, sette nazioni più grandi
e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu
le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza
né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie
ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché
allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a déi
stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi
distruggerebbe. Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari,
spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i
loro idoli. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore
tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che
sono sulla terra.”
Salomone,
quindi, il re saggio, colui che Davide sceglie, a preferenza degli altri figli
perché segga sul suo trono (anche se la Bibbia parla di un intrigo
orchestrato da Betsabea e dal profeta Natan contro Adonia, ricordando gli scontri
fra i diversi sostenitori dei possibili eredi del re), colui che Davide fa
ungere re dal sacerdote Zadòk e dal profeta Natan prima della sua morte, colui
a cui, in punto di morte, raccomanda di “osservare la legge del Signore,
procedendo nelle sue vie ed eseguendo i suoi statuti, i suoi comandi, i suoi
decreti e le sue prescrizioni, come sta scritto nella legge di Mosè” (1Re
2, 3), è in realtà figlio di un’unione che, dal punto di vista legale, sarebbe
del tutto illegittima e impossibile. Non è, in altre parole, un israelita
“puro”: nelle sue vene scorre il sangue dello straniero, del nemico.
5. Lo straniero nella Bibbia
A questo punto del percorso abbiamo
gli elementi necessari per condurre qualche riflessione conclusiva.
Abbiamo incontrato, leggendo qualche passo della Bibbia,
numerosi popoli stranieri che, quasi sempre, vengono indicati nel
modo più negativo possibile: sono frutto di unioni incestuose (i moabiti),
sono idolatri, non aiutano e accolgono gli israeliti in momenti di particolare
difficoltà (gli ammoniti e i moabiti), sono semplicemente nemici, da vincere,
distruggere, sterminare. La legge della violenza, propria dell’uomo di ogni
tempo, sembra di primo acchito dominare anche la prospettiva della Bibbia
o, almeno, dell’Antico Testamento.
In
più ritroviamo in molti passi biblici l’eco della preoccupazione di un
popolo minoritario che vuole conservare la propria identità, un’identità basata
sul rigido monoteismo, in un mondo composito, in cui è il politeismo (la
“idolatria”) a dominare. Il popolo israelitico teme, mescolandosi alle
altre popolazioni, di lasciarsi tentare dai costumi e dalle credenze religiose
altrui, teme di perdere la propria “unicità”. In questo senso i matrimoni
misti, che portano nelle case israelitiche donne che onorano altri dei, sono
considerati un male particolarmente grave e sono oggetto di divieto e di
esecrazione.
Ma
se da una parte troviamo l’idea dello straniero (e della straniera) come
nemico, da tenere lontano per non “contaminarsi”, uno straniero visto come
pericolo da vincere, sottomettere e, se possibile distruggere, dall’altra ci
troviamo di fronte alle tre figure femminili di cui abbiamo trattato che
mettono in crisi questa visione semplicistica dello straniero.
In
effetti nella Bibbia lo straniero non viene presentato solo come
nemico: è anche l’ospite da accogliere, da introdurre nella propria casa e da
rifocillare.
Esemplare,
in questo senso è l’episodio ricordato dal libro della Genesi di Abramo
che siede davanti alla sua tenda alle Querce di Mambre nell’ora più calda del
giorno: “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di
lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò
fino a terra dicendo: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non
passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua,
lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere
un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è
ben per questo che siete passati dal vostro servo.” (Gn 18, 3-5)
Accogliere
l’ospite, lo straniero, nel mondo antico è spesso considerato un dovere sacro:
l’ospite è protetto dal dio. Per il popolo ebraico diviene addirittura un
comando: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv
19, 18) (alcuni esegeti sostengono che il termine “prossimo” può essere
tradotto semplicemente con “straniero”). Del resto il popolo d’Israele
ha conosciuto cosa vuol dire essere straniero: l’esperienza della schiavitù
d’Egitto, il lungo periodo trascorso da stranieri nella terra del faraone, è
uno dei momenti forti della fondazione d’Israele. E, come dice il Deuteronomio:
“Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nel paese
d’Egitto” (Dt 10, 19)
Ma
c’è di più: la condizione di straniero non è legata solo ad un contesto
storico e geografico, è in realtà la condizione di ogni uomo. La vita umana è
segnata dalla precarietà, dall’essere “straniero”: si può vivere, dunque, solo
nell’accoglienza, accoglienza da parte di Dio, accoglienza da parte degli
altri. E chi è stato accolto, deve a sua volta accogliere. Dio ha accolto
Israele, Israele deve aprirsi all’ “altro”.
Tre
donne straniere: Tamar, Rut, Betsabea. Tre donne straniere sono riuscite a
superare lo status di nemico, sono diventate ospiti e poi addirittura
parte del popolo eletto.
L’esempio
di queste tre donne potrebbe in primo luogo portarci a riflettere sul fatto che
non esistono popolazioni “pure”: la condizione comune dell’umanità è
quella dei movimenti di popoli, dei matrimoni, della mescolanza, del
meticciato. Si abbandona la terra su cui si è nati per le più diverse
situazioni: una guerra, una carestia, un evento naturale, il desiderio di una
vita migliore,... Si arriva in un paese straniero in cui dapprima si è guardati
con sospetto, ma in cui, a poco a poco, ci si inserisce. Ci si sposa, si hanno
figli,... Gradualmente si diventa parte di una realtà diversa.
Se
torniamo all’esempio di Rut, potremmo dire che questa donna è veramente il
simbolo di quello che potrebbe essere il percorso dello straniero: Rut parte
dalla sua terra per amore di Noemi, ma anche per costruirsi un futuro migliore
dal momento che nelle campagne di Moab imperversa la carestia e a Betlemme,
invece, c’è cibo in abbondanza. Rut va a cercare un lavoro, un lavoro umile
come quello di spigolatrice nel campo di Booz per provvedere il necessario per
se stessa e per la suocera. Rut trova solidarietà in Booz che riconosce
il grande cuore della donna e la invita a mangiare con lui: la partecipazione
alla mensa comune è un segno di accoglienza. E la storia continua con il
matrimonio fra Booz e Rut nell’osservanza delle leggi del luogo e con la
nascita del figlio, antenato di re. Il
motivo della solidarietà impronta tutto il libro di Rut e diviene
l’immagine simbolica della fedeltà di Dio nei confronti degli uomini.
Ma
l’esempio di queste tre donne ci suggerisce qualcosa di più: nel progetto di
Dio, sembra indicarci la Bibbia, lo straniero deve diventare
ospite e profeta (cioè “colui che parla in nome di Dio”), deve inserirsi
nel piano salvifico che è per tutti gli uomini (Tamar e Rut come antenate da Davide, dalla cui
stirpe dovrà nascere il Messia). Lo straniero ha in qualche modo un ruolo
privilegiato, da profeta, appunto: deve ricordare ad ogni uomo che anche lui
è straniero in questo mondo e che l’apertura all’altro, il rispetto reciproco,
la condivisione sono momenti essenziali dell’esistenza umana.
Nel
mondo in cui viviamo, lo straniero ci ricorda in ogni momento che il progetto
di Dio non è quello della ricchezza per pochi e della fame, della malattia,
della morte per altri; che un mondo in cui le sperequazioni economiche e
sociali sono insostenibili non può essere lo scopo ultimo dell’azione della
maggior parte degli uomini nei “paesi ricchi”; che chi scompare nel canale di
Sicilia durante uno dei viaggi della speranza non è diverso da noi, se non
perché noi abbiamo ricevuto di più (e dovremo, di quanto abbiamo, ricevuto
rendere conto); che il mondo in cui viviamo è ben lontano dall’essere “il
migliore dei mondi possibile” e che deve, invece, essere profondamente
trasformato a misura d’uomo, di tutti gli uomini. Anche oggi, quindi, lo
straniero è profeta per chi sa ascoltare la sua voce al di là del qualunquismo
della gente comune e dei media che molto spesso vedono nello straniero il
“nemico”, quello che viene da noi per portare via il lavoro agli italiani
(secondo l’opinione più favorevole all’immigrazione) oppure per commettere ogni
sorta di reato e di delitto, imponendo per di più la propria visione religiosa
e culturale (basti leggere certi giornali o ascoltare certe trasmissioni
radiofoniche in cui, al di là del
pressappochismo e dell’ignoranza, domina la “paura” irrazionale di perdere i
propri “privilegi” e la propria identità).
Se
si torna alla Bibbia, invece, il rapporto con lo straniero acquista una
dimensione diversa: Tamar, Rut e Betsabea ci hanno insegnato che lo
straniero non è affatto un nemico, è invece uno di noi. Tutti siamo, in qualche
modo, stranieri. Tutti siamo in viaggio e tutti viviamo di ospitalità, di
solidarietà. Per quanto il mondo sia malvagio, è possibile e doveroso
prendere da esso le distanze e creare uno spazio di pace e di bontà.
Come conclude la sua conferenza Rosanna
Virgili: “La terra è di Dio, tutti gli uomini vi passano, vi faticano, vi
migrano, vi dimorano, vi mangiano, vi riposano, senza mai poter avere delle
esclusive, senza mai accaparrarsene un fazzoletto, senza mai dire: questo è
mio. Ma, specialmente, senza mai poter pensare di viverci da soli.” (op. cit., p.
53).
Decorazione cruciforme, Evangeliario di Lindisfarne
VIII secolo, British Library,
London
NOTA
Le citazioni bibliche seguono il testo della
versione ufficiale della CEI e sono tratte da
La Bibbia di Gerusalemme,
Bologna, Edizioni Dehoniane, 1986
Alcuni importanti spunti di riflessione sono
stati suscitati dalla lettura del libro
Enzo BIANCHI – Carmine DI SANTE – Paolo RICCA
– Elmar SALMANN – Rosanna VIRGILI, Lo straniero: nemico, ospite, profeta?,
Milano, Paoline, 2006
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