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Il vangelo di Luca (2)
Una introduzione alla lettura spirituale
Marconi Nazzareno
Gesù a Nazareth (Lc 4,16-30)
Luca pone all’inizio della missione di
Gesù il racconto di una sua visita a Nazareth, con un importante discorso nella
Sinagoga, che diventa una specie di manifesto programmatico della sua missione.
Questa scena é inquadrata da due
menzioni della prima azione apostolica di Gesù che si attua soprattutto entro
le sinagoghe (4,14-15 e 4,44); entro questo quadro troviamo la visita anche a
Cafarnao, per cui possiamo dire che il terna inquadrato é: “con le sue parole e
con le sue azioni Gesù annuncia la salvezza”. Ed attraverso questi due racconti
Luca mostra l’estendersi dell’azione di Gesù e dell’annuncio della salvezza
dalle sinagoghe della Galilea a quelle della Giudea, in vista di un’estensione
futura a regioni più lontane e poi a tutto il mondo, come Luca racconterà nel
corso della sua opera.
Questo tema centrale é alla base della
riorganizzazione dei ricordi che la tradizione tramandava fino a Luca; infatti
l’evangelista sposta le narrazioni anche a costo di lasciare qualche
incongruenza, come il v 23, dove si parla dei miracoli di Cafarnao che nel
nuovo ordine di Luca non sono invece stati ancora compiuti (cfr poi 4,3lss).
Per Luca era però troppo importante
creare un ordine diverso che mostrasse come Gesù dalla sua patria: Nazareth, va
verso l’esterno: Cafarnao, in vista di uscire ancora di più incontro
all’umanità; come dirà quando cercheranno di trattenerlo: “Bisogna che io
annunci il regno di Dio anche alle altre città”.
In questo contesto il racconto di
Nazareth mostra di essere diviso in due sezioni, dopo l’annuncio chiaro
dell’inizio del compimento delle promesse, si mostra il rifiuto della salvezza
fatto da Israele e la sua accoglienza invece da parte delle nazioni.
L’Idea dominante in 4,16-22 é quella
dell’OGGI della salvezza, il brano letto é un testo chiaramente messianico di
Isaia, e Gesù si immedesima con tanta naturalezza nel personaggio descritto da
Isaia che ogni lettore trae l’impressione chiara che Isaia avesse di fronte
Gesù di Nazareth quando ha scritto quelle parole profetiche. Soprattutto la
menzione dello Spirito e della consacrazione attuata da questo Spirito,
corrisponde perfettamente a tutte le sottolineature precedenti fatte da Luca
del rapporto unico ed intenso tra lo Spirito e Gesù, a partire dal racconto
della annunciazione fino alla discesa dello Spirito ed alle tentazioni. Un
elemento tipico di Luca è il fatto che Gesù interrompe la sua lettura subito
prima di un versetto che parla di giudizio e punizione: la salvezza annunciata
é soprattutto un evento gioioso e di fronte a questa gioia tutto il resto
scompare.
Una comprensione più approfondita del
testo ci viene se ci serviamo degli studi che hanno ricostruito come si
svolgesse una liturgia nella Sinagoga al tempo di Gesù.
Dopo alcune preghiere introduttorie tra
cui il Decalogo ed il famoso “Shemà Israel”, seguono le letture. L’inserviente
della sinagoga prendeva uno dei cinque rotoli della legge e lo dava ad un uomo
che ne leggesse un estratto. Quindi un traduttore, versetto per versetto, dava
una versione aramaica, perchè l’ebraico in cui era scritto il testo originale
non era più comprensibile per l’assemblea. Poi di solito si leggeva un estratto
da un libro profetico, che veniva ugualmente tradotto in aramaico. Questo testo
veniva detto in aramaico “ashlematah”, cioé compimento. La sua funzione era quella di dare un
appoggio ed una prima spiegazione del testo della legge, e veniva perciò scelto
in base al primo testo. Seguiva l’omelia che chiarificava l’applicazione alla
vita dei testi letti.
Questa descrizione di una preghiera
sinagogale in giorno di sabato, mette in maggior risalto l’originalità di Luca.
Nel suo testo infatti non si parla più di lettura di un testo dalla Legge,
benché questo fosse il testo basilare di tutta la preghiera, sul quale si
centravano e dal quale erano determinati sia il testo profetico che l’omelia.
Questo silenzio non e casuale, infatti nella preghiera sinagogale descritta da
Luca il polo di attrazione di tutto quanto non é più un testo della Legge, ma
Gesù.
Il testo profetico inoltre, che
nell’ufficio sinagogale veniva dopo la lettura della legge per chiarirla, viene
ora prima di Gesù, che ne é il compimento. Tutta la scrittura nell’ottica di
Luca é ormai scrittura profetica, in quanto é tutta proiettata verso il suo
compimento definitivo che é Cristo. Tutta la funzione della Scrittura assume
perciò un nuovo indirizzo: con il compimento ormai in via di realizzazione la
Parola di Dio dell’antico testamento, diviene una profezia che punta il dito
verso Gesù.
Non comprendere tutto questo, rifiutare
questo cambio totale di orizzonte porta inevitabilmente a non comprendere la
salvezza offerta da Gesù, a rifiutarla; come accade agli abitanti di Nazareth
nella seconda parte di questo racconto. Luca sottolinea ciò stilisticamente con
un brusco cambiamento di clima: dall’accettazione entusiasta al netto rifiuto,
indicando il capovolgimento che nei cuori degli ascoltatori veniva proposto
dalle parole di Gesù.
Di fronte a questa chiarezza, come
avverrà nella passione che qui viene anticipata, le reazioni sono due, o
accogliere Gesù come Nuova Parola di Dio, che dà il senso vero dell’antica
parola rinnovandola dall’interno, o rifiutarlo, ucciderlo, magari in nome di
questa stessa antica parola mal compresa. Gesù infatti verrà ucciso sulla croce
perché accusato di bestemmia, di aver cioé violato il comando fondamentale
dell’antico testamento. Fin da ora si prepara la gloria della pasqua preceduta
dalla notte della passione.
Una pesca miracolosa (Lc 5,1-11)
Nel suo vangelo Luca usa il racconto
della pesca miracolosa per fare da sfondo alla chiamata dei primi tre
discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Il racconto della pesca miracolosa è
testimoniato anche dalla tradizione giovannea, ma dopo la resurrezione (Gv
21,1-8). Il testo di Marco che riferisce la vocazione dei primi 4 apostoli e
che Luca ha certamente presente (Mc 1,16-20) mette in rilevo la particolarità
di questo racconto: il protagonismo di Pietro. Rispetto a Marco infatti Luca
omette la menzione di Andrea e si riferisce ai due figli di Zebedeo solo alla
fine nel v 10.
Il racconto si apre con la scena di
Gesù che usa la barca di Pietro come un pulpito improvvisato per parlare alla
gente, che usa le rive scoscese del lago di Tiberiade come un anfiteatro
naturale. Quest’uso, storicamente e tecnicamente molto credibile, è riportato
da Marco due volte in 3,7-9 e 4,1.
Tutto questo mostra come siamo di
fronte ad un testo costruito con buona arte narrativa componendo tradizioni
diverse su Gesù, il lago ed i suoi discepoli, e soprattutto su una pesca
miracolosa che ha per protagonista principale Pietro (anche nel vangelo di
Giovanni).
Tutto questo ci invita a valutare
attentamente il significato che questo sfondo dà alla vocazione degli apostoli.
In Luca questa vocazione non riguarda personaggi tra loro sconosciuti, come
appare in Marco. Gesù ha già avuto occasione di mostrare la sua potenza
guarendo la suocera del pescatore di Cafarnao (Lc 4,38-40). Salendo sulla barca
di questo, per predicare, Gesù ne fa un suo collaboratore in questo impegno di
insegnamento, che Luca curiosamente chiama: “insegnare la parola di Dio” (Lc
5,1). Non è certo un caso che nel libro degli Atti si designi così la
predicazione degli apostoli. Allo stesso modo la pesca che segue assuma un
significato del tutto particolare. Invitando Pietro ad avanzare verso il largo
dove l’acqua è profonda Gesù si prepara ad illustrare con un’azione simbolica,
simile a quella dei profeti Geremia ed Ezechiele, i risultati della
predicazione apostolica. Grazie a Lui ed alla sua potenza, indipendentemente
dai limiti degli annunciatori (v 5,8) sarà un grande successo. Le indicazioni
temporali del v 5 che fanno riferimento ad un fallimento notturno e ad un
successo in pieno giorno, oltre a sottolineare la straordinarietà del miracolo,
rinviano all’immagine della luce della resurrezione che vince le tenebre degli
insuccessi umani.
Nella frase conclusiva di Gesù «Non
temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini», viene riassunto il ruolo ed il
valore della missione che Gesù affiderà ai futuri evangelizzatori.
Chiamato a seguire Gesù, lasciando
tutto per seguirlo, secondo quelle esigenze radicali che il terzo vangelo ama
ricordare ai suoi lettori, Pietro è già immesso nel livello di responsabilità
che eserciterà nella chiesa. L’immagine luminosa di una pesca fruttuosa ed in
pieno giorno, davanti agli occhi di tutti, è il quadro che Luca offre per
prefigurare profeticamente quella pesca miracolosa di credenti che gli apostoli
e Paolo faranno lungo tutte le sponde del Mediterraneo.
I Dodici Apostoli sulla montagna Lc 6,12-16
Seguendo il testo di Marco, Luca
riferisce la chiamata dei Dodici dopo una serie di controversie con gli scribi
ed i farisei (Lc 5,17-6,10). Quasi in fuga da un mondo che non lo accoglie Gesù
sale verso il Padre. Infatti in tutto l’immaginario biblico la montagna
rappresenta il luogo del silenzio, della preghiera, dell’avvicinamento non solo
fisico al Cielo. Luca accentua questo fatto parlando di una prolungata
preghiera di Gesù che precede la scelta dei dodici. Questo sottolinea che si
tratta di una scelta importante, fatta con il consiglio e l’appoggio pieno del
Padre. Nella storia della salvezza che Dio dirige e che Gesù è venuto ad
attuare si sta compiendo un passaggio importante: Israele, o almeno l’Israele
ufficiale degli scribi e dei farisei ha già chiaramente mostrato di rifiutare
il vangelo. Gesù risponde ponendo le dodici fondamenta di un nuovo popolo,
infatti il numero dodici era chiaramente il primo simbolo delle dodici tribù
del popolo eletto. Quello che non va dimenticato è che questo nuovo popolo non
è in realtà un popolo del tutto diverso. i Dodici sono infatti tratti da quella
folla di ebrei credenti nel vangelo che seguiva Gesù. Come avvenne dopo
l’Esilio è da un piccolo resto fedele del popolo precedente che Dio da origine
al popolo nuovo. Novità e continuità sono ancora una volta presenti assieme
nella storia della salvezza.
Solo Luca ci dice che Gesù, dopo avere
scelto i dodici “diede loro il nome di Apostoli”. Il termine greco deriva dal
verbo “apostellein” inviare, per questo Luca non differisce molto da Marco che
riferisce: “Gesù scelse i dodici per inviarli…”, ma nella formulazione del
nostro evangelista traspare una particolare solennità del momento. Il termine
nell’uso del tempo di Gesù designava un inviato dotato di particolare autorità
e di una certa autonomia di giudizio, un fiduciario del suo signore. Così i
rabbini definiscono Eliezer nei confronti di Abramo riguardo al racconto del
fidanzamento di Isacco (Gn 24,4). In qualche modo si sta parlando di
rappresentanti ufficiali, di ambasciatori. Così gli Apostoli di Cristo non sono
dei semplici ripetitori della sua parola, ma degli inviati responsabilizzati a
condividere la sua missione di annuncio. Luca come gli altri scritti apostolici
(30 utilizzi) ama questo termine ( 36 utilizzi) che è invece raro negli altri
vangeli (1 utilizzo per ogni vangelo). Stranamente in Atti Paolo è definito
apostolo una sola volta, mentre è un titolo molto frequente nelle sue lettere.
Si tratta del suo invio ufficiale da parte della chiesa insieme con Barnaba
(Atti 14,4-14). Negli altri casi sono il gruppo degli undici che poi diventano
di nuovo dodici, in obbedienza al volere di Gesù. Questo titolo nel vangelo è
riservato ai dodici in maniera chiara. In questo modo Luca, con buona
probabilità, vuol sottolineare il legame unico tra Gesù ed i dodici. Nella
storia della salvezza c’è un tempo unico e significativo: l’epoca dei testimoni
oculari, che va dalla vita di Cristo a quella vissuta insieme dagli apostoli a
Gerusalemme, animati dallo Spirito di Pentecoste. E’ il tempo della fondazione
della Chiesa che ha negli apostoli, ambasciatori plenipotenziari di Gesù, il
suo solido fondamento. Il gruppo degli apostoli diventa così la struttura
mediatrice indispensabile tra il Gesù storico ed i credenti di tutti i tempi,
la visione ecclesiale di Luca traspare dal suo uso di questo termine in maniera
chiara.
Beati
voi poveri (6,20-49)
Il vangelo di Luca, come quello di
Matteo contiene un discorso di beatitudini, cioè con un elenco di attributi
preceduti dall’affermazione “beati!”. Non si tratta di una novità, espressioni
simili si ritrovano con frequenza nell’antico testamento ed in modi
notevolmente diversificati. Una via di comprensione interessante parte dal
confronto fra il racconto di Luca e quello di Matteo, fatto soprattutto a
partire dalla localizzazione. Infatti Matteo situa la proclamazione delle
beatitudini ed il lungo discorso di Gesù che le accompagna su di una montagna;
Luca invece fa scendere Gesù dalla montagna in un luogo pianeggiante.
Già S.Ambrogio nel suo commentario
sottolineava: “Guarda bene i dettagli, come salga in compagnia degli apostoli e
ridiscenda poi verso le folle”. L’immagine é chiara, si sale il monte per
isolarsi con pochi, poi si scende nuovamente a valle per poter incontrare una
grande moltitudine. Ed in effetti Luca presenta l’arrivo di una grande
moltitudine di discepoli di abitanti della Giudea, di Gerusalemme, addirittura
pagani di Tiro e Sidone.
Alcuni vengono solo spinti dalla speranza
di guarire, altri per ascoltare l’insegnamento di Cristo, ma anche tra questi,
quanti sono soltanto dei curiosi, e quanti sono invece disposti ad un vero
ascolto? Di fronte al discorso sintetico e chiaro di Cristo, la folla viene
divisa, si chiariscono le posizioni. Ai primi si rivolgono promesse di bene e
consigli per una vera conversione (6,20-23 etc); agli altri parole chiare
destinate a smuoverli con la loro crudezza.
Disceso dalla montagna Gesù pronuncia
un discorso in due parti: l’annuncio delle Beatitudini e dei Guai, ed un
discorso sulla vita perfetta. Il primo e indirizzato ai discepoli (6,20-26),
con questo termine si indicano i seguaci di un maestro, che non necessariamente
abbiano fatto una scelta molto impegnativa; dei “discepoli” potevano abbandonare
un maestro troppo esigente o troppo difficile da seguire (cfr.Gv 6,60). La
stessa introduzione a queste parole li mostra ancora molto mescolati con la
folla che viene da Gesù spinta solo dalla curiosità o dal desiderio di essere
sanata.
Quello che risulta con chiarezza, anche
dal senso che Beatitudini e Guai hanno nell’Antico testamento é che siamo di
fronte ad una chiara proposta di conversione. Una proposta che aveva valore non
solo per le folle, ma anche per i primi cristiani a cui si rivolgeva il testo
di Luca, per i quali la sequela di Gesù non era certo sempre profonda e
definitiva come a volte tendiamo ad immaginare.
Queste parole conservano in Luca una
seconda particolarità rispetto all’usuale, cioè il loro carattere fortemente
personale: “beati VOI”, “guai A VOI”; sono dei veri appelli indirizzati agli
ascoltatori come ai lettori e destinati a provocare una presa di posizione
personale. Ognuno é invitato a riconoscere che la vera beatitudine e la vera
sfortuna, sono ben diverse da quelle che spontaneamente ciascuno riterrebbe,
ognuno è invitato a cambiare il proprio metro di giudizio sulla realtà: quello
che nel linguaggio biblico si definisce come “cambiare il proprio cuore”,
“conversione del cuore”.
Chi sono i poveri intesi da Luca? Certo
si tratta di coloro che si trovano realmente nell’indigenza, come la
beatitudine sugli affamati conferma con chiarezza anche se é vero che il greco
biblico, come l’ebraico, distingue male la povertà materiale da altri tipi di
afflizioni: in una parola tutti coloro che soffrono sono poveri. Come nelle
nostra lingua quando diciamo “poveretto”, riferito magari ad un ricco che sia
afflitto da una malattia o da un lutto. Le beatitudini di coloro che piangono,
di coloro che sono odiati, vengono ad ampliare la categoria di questi poveri
destinatari della beatitudine, che comprende anche coloro che pur non essendo
miserabili, sono però bisognosi e per questo posti ai confini della società,
immediatamente prima degli schiavi, come gli operai a giornata di cui parla Mt
20,lss nella parabola.
Questi sono gli uomini a cui Gesù fa la
sua promessa-proposta di beatitudine; e qualsiasi calcolo umano tenderebbe a
mostrare questa proposta-promessa come assurda. Diventa perciò estremamente
credibile che tra essi si abbia la reazione di un riso di scherno alle parole
di Gesù, come indicato dal terzo “guai”.
La situazione di povertà non basta
infatti da sola a garantire la beatitudine, alle beatitudini vanno accostati i
“guai” e chi non ascoltando Gesù si pone sotto le indicazioni di uno dei
“guai”, si esclude con ciò dalla promessa di beatitudine.
Chi non accetta di seguire “il figlio
dell’uomo” a costo di porsi in contrasto con i gusti del mondo circostante, chi
quindi non mette la sequela di Cristo al disopra di tutto non é per la sua
povertà automaticamente beato, ma rischia di incorrere nel quarto guai che lo
sottrae alla beatitudine.
Questa beatitudine comporta una
promessa: innanzi tutto il “regno di Dio”. Gesù é venuto appunto per questo,
per farsi araldo di questo regno che comporta il buon annuncio ai poveri, la
proclamazione della liberazione per i prigionieri, del perdono per i peccatori,
della salvezza per gli indemoniati, della guarigione per i malati. Realizzare
tutto questo è attuare sulla terra il regno di Dio.
Ora la frase “vostro é il regno dei
cieli” sembra da intendere in questo contesto, ed in base al greco: “il regno
di Dio vi é affidato, sarete voi, i poveri che lo attuerete”. Gesù affida
quindi ai poveri, agli ultimi animati pero dalla fede la continuazione della
sua opera, attuare nel mondo, per quanto sta all’uomo, il Regno di Dio. Per
questo come lui i veri poveri che accoglieranno la sua proposta verranno
perseguitati, per questo come gli antichi collaboratori di Dio, i profeti,
dovranno subire la persecuzione; ma la vittoria della loro fede e garantita da
Dio.
Questo per i collaboratori di Dio, per
chi accoglie la promessa-proposta di Gesù; ma gli altri, coloro che rifiutano
divenendo i destinatari dei Guai? Ciò che viene rimproverato ai ricchi
annunciandolo anche come loro condanna é che hanno “la loro consolazione”. La
consolazione è la forza che ci viene comunicata da un altro per affrontare le
avversità e le sofferenze; ora ogni vera consolazione vien da Dio, le altre
sono illusorie. I ricchi sono degli illusi, credono di poter contare su se
stessi, si ritengono forti da soli per cui dovranno ben presto scontrarsi con
l’amara esperienza della fine della loro illusione, di fronte alla malattia o
alla morte (cfr 16,25; 12,16-21).
Ma se il ricco si lascia cambiare dalle
parole di Gesù, forse piangerà e rientrerà, attraverso questo cammino, nel
numero dei beati.
Gesù infrange i
confini (Lc 7)
Il capitolo settimo del vangelo di Luca
può essere guardato in maniera sintetica ed unitaria, ed allora traspare che nei
vari episodi che narra c’è un filo unificante: tutti i protagonisti di queste
storie sono posti oltre un confine che il giudaismo del tempo non osava
oltrepassare. Tuttavia Gesù infrange il limite, apre un dialogo e supera ogni
frontiera.
Nei primi capitoli di Luca gli
stranieri sono appena indicati e non è riferito nessun dialogo tra loro e Gesù.
Con il centurione di Cafarnao le cose cambiano radicalmente. Luca le fa il tipo
di quegli stranieri amici dei giudei che mette frequentemente in scena. Si può confrontare
ad esempio il ritratto parallelo del centurione di Cesarea (Atti 10,1-7).
L’uomo crede, da lontano, al Dio unico e creatore. Al tempo stesso è
impressionato dalle leggi di purità rituale del giudaismo e non osa venire di
persona a chiedere l’aiuto di Gesù. Questo crea per ben due volte un dialogo a
distanza, attraverso la mediazione degli amici, che mette in evidenza la forza
e la semplicità della fede di questo pagano. Gesù lo ammira pubblicamente: “Non
ho mai trovato in Israele una fede così grande”.
Il secondo episodio: quello del
giovanetto di Nain, mostra che la potenza di Gesù non infrange solo le barriere
tra i popoli, ma anche i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Per
comprendere la gravità di una tale affermazione bisogna comprendere che tutto
il sistema legale biblico, sia in ambito simbolico che in quello normativo, si
fondava sull’obbligo di scegliere e distinguere tra la vita e la morte, il
mondo dei vivi e quello dei morti (Cfr Dt 30,15-20). L’antico Israelita si sente
debole ed intimorito di fronte alla morte della quale cerca di sfuggire anche
il ricordo. Di conseguenza la legge non prevedeva alcun rito funebre, ed il
giudaismo attuale si accontenta di un rituale molto sobrio dove domina il tema
della sottomissione assoluta a Dio. Nell’uno e nell’altro caso nessuna
cerimonia si svolge entro la sinagoga.
Il terzo episodio: l’incontro con gli
inviati del Battista come nel caso del centurione, ma per motivazioni ben
diverse, è segnato da un dialogo a distanza tra i due protagonisti, dove i
messaggeri non sono che dei trasmettitori passivi. Gesù conclude il suo
discorso con una frase significativa: “Beato colui che non si scandalizza di
me”. L’episodio si situa così su una terza frontiera : quelle della
comprensione dell’operare divino. Gesù spiegherà più avanti alla folla che
questa frontiera nella comprensione del mistero è quella che separa i nati di
donna dai membri del regno di Dio (cfr. Lc 7,28).
Ma di tutte le frontiere indubbiamente
la più solida ed invalicabile è quella che separa, agli occhi di Israele, i
giusti dai peccatori. Il bellissimo racconto del perdono della peccatrice è la
testimonianza di come Gesù sappia oltrepassare in maniera imprevedibile e
creativa anche questo confine.
I tuoi peccati sono perdonati (7,36-50)
Siamo di fronte ad una storia veramente
bella: il gesto pieno di umiltà e di affetto di una donna che permette di
annunciare in tutta la sua bellezza e ricchezza il perdono di Dio.
Il racconto si presenta come se si
trattasse di una coppia di parabole, l’una inserita nell’altra: c’è quella
raccontata da Gesù e quella involontariamente interpretata dai protagonisti,
che con i loro gesti e le loro reazioni diventano una vera parabola sul
perdono.
Simone é un fariseo, ma non per questo
si tratta di un nemico di Gesù; anzi ha con lui buone relazioni, al punto da
averlo invitato a pranzo. Per lui Gesù é un maestro, forse un profeta; è
interessato ad ascoltarlo, ma resta un pò sulle sue. Il passaggio di Gesù lo
incuriosisce e lo spinge ad una istintiva simpatia ma nulla di più, non
sconvolge la sua vita tranquilla; non sente il bisogno di questo
sconvolgimento, perchè conosce bene la sua religione e si sente in regola nei
confronti di Dio. Un personaggio lontano nel tempo ma estremamente attuale
nell’esperienza di sempre dell’umanità. La donna è una peccatrice nota a tutti.
Come ode che Gesù é là accorre, il suo comportamento é pieno di umiltà. Si
getta i piedi di Lui, ha portato un profumo per donarglieLo, e con un gesto
ricco di una esagerazione amorosa tipicamente femminile, esprime lo
sconvolgimento che Gesù ha portato nella sua vita con il pianto, baciando quei
piedi e cospargendoli di profumo.
Questa scena non fa riflettere Simone
sulla sua mancata disponibilità a rispondere con una conversione della sua vita
alla venuta di Gesù, anzi trova piuttosto da questo gesto un pretesto per
accusarlo. A questo punto Gesù interviene per aiutarlo con una parabola.
Il senso della parabola é chiaro, colui
che ama di più é colui a cui é stato perdonato di più. L’applicazione al caso
di Simone è ugualmente semplice: Simone non ha creduto di dover manifestare
pubblicamente la sua gratitudine a Gesù, non ha ritenuto di dover manifestare
più amore, perché non é cosciente di essere stato perdonato, pensa anzi di non
aver bisogno del perdono di Gesù. La donna al contrario sente di essere
profondamente peccatrice, ma nella venuta di Gesù, ha misteriosamente
riconosciuto il perdono di Dio che le veniva offerto, per questo mostra con
molto amore la sua gratitudine.
Resta a questo punto ancora da chiarire
un elemento fondamentale di questo racconto che spesso viene mal compreso: “le
sono perdonati i suoi molti peccati perché ha molto amato, invece quello a cui
si perdona poco, ama poco” (v 47). Normalmente si comprende: poiché questa
donna ha amato molto le è stato perdonato molto, ma se dobbiamo restare fedeli
alla parabola dovremmo dire il contrario. In realtà nella sua frase Gesù parte
da ciò che lui e gli altri vedono: il grande amore della donna, e da questo
risale alla fonte cioè il perdono generoso che essa ha ricevuto.
Gesù insegna a riconoscere da quello
che si vede l’azione invisibile di Dio che sta alle spalle. L’idea che il Gesù
di Luca trasmette è chiara: di fronte a Dio siamo tutti come dei peccatori che
non possono pagare, ma Dio non attende il nostro amore per perdonarci, Egli
agisce per primo, ci perdona. Tra noi però alcuni si comportano come Simone: si
ritengono giusti, e pensano di non aver debiti con nessuno, neppure con Dio. Si
ripiegano su se stessi, non sanno amare.
Altri al contrario si riconoscono
peccatori e debitori. Quando questi scoprono il Dio del perdono che si rivela
in Gesù, allora sono pieni di riconoscenza e di amore e non temono di
manifestarlo visibilmente.
Il tema del perdono é particolarmente caro
a Luca (cfr 5,17ss) e qui la sua catechesi tocca un punto importante: Gesù non
dice “ti perdono i tuoi peccati”, ma “i tuoi peccati sono stati perdonati”. É
un fatto che si é già compiuto, il perdono di Dio é pronto, ricco, disponibile,
ancora prima che noi lo domandiamo. Ecco la buona novella che Gesù é venuto a
rivelare ai poveri, il tempo della benevolenza di Dio (cfr 4).
Gesù stesso é il segno di questo
perdono. Anzi, é questo perdono in azione; e per questo motivo accoglie i
peccatori, mangia con loro, si auto-invita in casa loro. Simone non ha capito
questo mentre la peccatrice ha intuito subito questa verità, e si è perciò
rivolta piena di fede a Gesù. Per questo il racconto termina con una domanda
che si ricollega al racconto del paralitico: “chi é quest’uomo che può
rimettere i peccati?”.
Chi si è fatto prossimo? (10,29-37)
Nel raccontare la famosa parabola del
Buon samaritano, Luca sembra preoccupato di mostrare tutta la pedagogia usata
da Gesù. Un dottore della legge fa una domanda a Gesù, Questi non risponde, ma
prende lui stesso ad interrogare. Il dottore della legge pone allora una
seconda domanda, e come la prima volta Gesù capovolge i ruoli e dopo aver
raccontato una parabola pone ancora una domanda al suo interlocutore.
Questo comportamento di Gesù lo
ritroviamo altre due volte in Luca: in occasione della domanda sulla necessità
di pagare le tasse a Cesare, e di quella sull’origine della autorità di Gesù.
In ambedue i casi Gesù risponde riversando la domanda sull’interrogante, e
nell’ultimo testo, siccome sommi sacerdoti e scribi si rifiutano di rispondere,
la domanda posta a Gesù resterà anch’essa senza risposta.
Gesù non si comporta sempre così, nel
vangelo troviamo spesso occasioni in cui Gesù risponde alle domande che gli
vengono poste. Qui Luca ci prepara alla sua reazione anticipandola con la
precisazione che: “il dottore della legge lo interrogò per metterlo alla
prova”. E questa introduzione o una equivalente precede i due racconti che
riferiscono questo strano comportamento di Gesù.
La situazione in cui siamo posti é
quindi particolare, in ognuno di questi casi la risposta che si attende non
verrebbe accolta come parola di Gesù, quindi parola di Dio valida in se stessa,
ma come un pretesto per una discussione dotta, o peggio come una scusa per
accusare Gesù. Chi fa questa e le altre domande si pone davanti a Gesù come un
giudice, non come un ascoltatore attento.
Per questo Gesù si sforza di
capovolgere la situazione. Obbliga l’interlocutore a rientrare in se stesso e
lo fa spingendolo a leggere direttamente la scrittura a comportarsi da
competente quale é. Ed in effetti si mostra competente, infatti non si
accontenta di ripetere una frase standard, ma cita due brani tra loro molto
lontani proponendoli in una sintesi nuova.
Mette in parallelo una frase del
Deuteronomio ed una del Levitico, riunendo così in un solo comandamento l’amore
di Dio e quello del prossimo. Non si tratta dell’interpretazione tradizionale,
normale dei rabbini dell’epoca, ma di una sua posizione personale, di un suo modo
di affrontare personalmente la questione.
Gesù non si accontenta ancora e va
oltre: “fai questo e vivrai”. Il verbo FARE é importante; se leggiamo il testo
con attenzione lo ritroviamo 4 volte: nella domanda del dottore della legge,
nella risposta di Gesù, nella conclusione della parabola e nella conclusione di
tutto il passo. Il messaggio é semplice: per avere la vita é necessario cercare
luce nella Parola di Dio, ma questo non basta ancora. La Parola deve divenire
azione, bisogna FARE, bisogna mettere in pratica (cfr 8,21).
Il nostro personaggio ama
particolarmente discutere, e Luca mostra come dietro questo amore ci sia il
tentativo di scappare al confronto con la proposta di Gesù, dice infatti che
“voleva giustificarsi”; cercava cioé di imbarazzare il maestro, di coinvolgerlo
in una discussione molto accademica e poco concreta su chi é il prossimo.
A questo punto entra in scena la
parabola, e riveste un ruolo ben preciso. Non si tratta soltanto di un esempio
per illustrare una verità molto generale. Ma e un modo di far riflettere
portando l’ascoltatore a chiedersi come concretamente si é comportato lui nei
confronti del prossimo, più che una domanda teorica sul prossimo, una domanda
concreta su chi é stato il prossimo nella mia vita: quando nella vita mi sono
fatto prossimo a qualcuno?
Si tratta non tanto di sapere chi é il
mio prossimo, quanto di scoprire di chi io mi sono mostrato prossimo quando me
ne é stata offerta l’occasione nel corso della mia vita. Si passa di nuovo da
una discussione solo teorica a quella che potremmo chiamare oggi una revisione
di vita.
La potenza delle parabole si mostra qui
in tutta la sua forza, in realtà la parabola funziona come uno specchio che ci
permette di vederci di fronte, che ci mostra come agiamo, come ci vedono gli
altri etc. Un tipico esempio é la parabola che il profeta Natan raccontò a
David : un ricco uccide l’unica agnella di un uomo molto povero, piuttosto che
dare una delle sue pecore ad un viandante. Alla fine del racconto David
indignato esclama “Come é vero Dio, l’uomo che ha fatto ciò merita la morte!” e
Natan risponde “sei tu quell’uomo!” (2Sam 12,5-7). La parabola ci avvince e ci
incanta col suo fascino e la sua ingegnosità, finché di mano in mano che il
racconto procede, cominciamo a renderci conto che sono le nostre vite
tranquille, ed i falsi valori che ci siamo costruiti ad essere minacciati,
perché costituiscono il materiale che compone la storia. Questo tipo di
parabola produce una specie di immagine riflessa, come in uno specchio; la
persona a cui la parabola é diretta non solo può riconoscervi il suo modo di
agire, ma avere anche la sensazione di come invece dovrebbe comportarsi.
La scelta delle parabole fatta da Gesù
é quindi la scelta di un linguaggio che collabori al coinvolgimento profondo delle
persone nel messaggio che viene loro comunicato: Gesù non vuol fare accademia,
vuol cambiare le vite delle persone.
Chiarito questo contenuto fondamentale
della parabola é corretto cercare di andare oltre, cercando ad esempio la
ragione per cui nella parabola si oppongono come personaggi, alla figura del
samaritano quella del sacerdote e quella del levita? Certamente, a patto di non
esagerare. Quando nasce una parabola, accanto alla intuizione del tema centrale
che fa creare la parabola, vi possono essere intuizioni seguenti, che trattano
temi paralleli o correlati, e questo è probabilmente il nostro caso; ma si
corre il rischio di esagerare cercando in ogni elemento della parabola un
significato, cosa che può portare a grossi fraintendimenti.
Per quello che riguarda il nostro
problema ci sono state varie proposte. Per alcuni avremmo qui una opposizione
fra il culto e l’esercizio della carità. Per altri si tratta del fatto che il
contatto con il sangue rendeva impuri, perciò il sacerdote ed il levita, per
poter continuare il loro servizio al tempio, hanno preferito non accostarsi al
ferito considerando più importante la purità sacrale del comandamento
dell’amore, cosa che verrebbe duramente ripresa da Gesù.
Forse queste interpretazioni si
allontanano troppo dal senso vero del testo; che d’altra parte é più chiaro
quanto alla scelta del samaritano; infatti questi non soltanto non è parte del
popolo di Dio, ma ne é addirittura il nemico tradizionale. Come potrebbe essere
destinato secondo le parole di Gesù ad aver parte alla vita eterna? La stessa
idea si presenta scandalosa. Eppure é proprio lui che si é fatto prossimo
dell’uomo ferito e la frase finale di Gesù sottolinea che per noi la sola
strada é seguire il suo esempio.
Le tre parabole del capitolo 15
Il capitolo 15 del nostro vangelo è
dominato dalla bellissima parabola del figliol prodigo. E’ un testo importante
che ha certo valore in sé, e merita di essere analizzata in dettaglio, ma
questo non toglie che faccia chiaramente parte di un contesto: le due parabole
che la precedono. Il legame con la parabola della pecora perduta (narrata anche
da Mt 18,12-14) e con quella della dracma perduta è profondo e molteplice.
Soprattutto compare la simmetria tra le
espressioni “perduta” e “ritrovata” (v 4-6; 8-9; 24,32) che i tutti e tre i
casi porta alla “gioia” (6-7; 9-10; 23-24; 32). In effetti il cap 15 di Luca è
chiaramente unitario: comincia come una controversia (15,1-2) con i pubblicani
ed i peccatori che si accostano a Gesù per ascoltarlo e gli scribi ed i farisei
che mormorano contro Gesù, perchè accoglie i peccatori fino a condividere con
loro la mensa. Si tratta di una scena così frequente nel vangelo da non
emergere in maniera particolare, ma in questo caso siamo di fronte ad un vero e
proprio prologo introduttivo al capitolo: Luca annuncia il tema del suo
discorso.
Le tre parabole sono così la risposta
di Gesù: anche Dio fa buona accoglienza ai peccatori perchè il suo cuore
desidera prima di tutto perdonare. Nel v 7 è più che chiaro che la pecora
perduta è l’immagine del peccatore che si converte, così come la dracma
recuperata nel v 10. Ma soprattutto nelle parabola del figliol prodigo le
parole amare del figlio maggiore danno voce e giudizio sulle rivendicazioni
degli scribi e farisei che avevano aperto il capitolo (29-30).
E’ inoltre chiarissimo che ognuno dei
personaggi delle tre parabole corrisponde ed incarna i protagonisti del piccolo
dramma che si gioca attorno a Gesù: peccatori da una parte e “giusti”
dall’altra. Gesù ritaglia per sé il compito di perfetto imitatore del Padre,
caratterizzato come il pastore che ha 100 pecore, la donna che ha 10 dracme ed
il padre che ha 2 figli. E’ forse eccessivo leggere nell’immagine della donna
un voluto richiamo polemico al misoginismo dei farisei, è comunque certo che
Gesù e l’evangelista sono così liberi da queste storture mentali da poter
tranquillamente usare una figura femminile come immagine simbolica di Dio.
D’altro canto già i profeti avevano usato l’immagine materna per caratterizzare
la tenerezza dell’amore divino.
Nel procedere del capitolo i numeri
diminuiscono: 100, 10, 2; ma cresce l’intensità ed il dettaglio con cui sono
descritti i sentimenti dei protagonisti. Se le 99 pecore stanno docili nel loro
recinto e le dracme restano immobili nel sacchetto dei preziosi, i figli della
terza parabola hanno voce ed azione ed in particolare il figlio più grande
parla esattamente come gli scribi ed i farisei.
Il figlio ritrovato
Cerchiamo di analizzare l’insieme
dell’intreccio evidenziando i vari momenti della storia.
All’inizio Gesù introduce i personaggi
della storia: un padre e due figli e presenta un primo schema di rapporti, il
figlio minore con la sua strana richiesta al padre e l’accondiscendenza di
quest’ultimo. La seconda parte del v 12 pone le basi della complicazione
dell’intreccio, nascono infatti subito delle domande: perchè il figlio ha
voluto questa divisione dei beni, perchè il padre è stato così condiscendente,
quale sarà la reazione del fratello maggiore? Etc.
Con il v 13 la situazione prende a complicarsi:
il fratello minore parte da casa e sperpera i suoi beni giungendo ad una
situazione disperata, solo a questo punto decide di tornare a casa. Le domande
iniziali hanno trovato una prima risposta: il secondo figlio aveva voluto i
suoi beni e si era allontanato per darsi alla bella vita; ma restano sospese le
altre domande sul comportamento del padre e del fratello maggiore.
La domanda che viene a porsi con
chiarezza è infatti: fino a che punto giungerà l’amore del padre? ed anche:
fino a che punto giungerà il non intervento del fratello maggiore?
Fino ad ora il suo interesse diretto
non era stato toccato, si trattava di avere ognuno la sua parte, ma ora la
riammissione del fratello nella casa potrebbe creare una erosione della sua
parte di eredità rimasta.
Il ritorno a casa pone la scena per la
soluzione, una soluzione non più dilazionabile, anzi volontariamente anticipata
dal padre che corre incontro al figlio. L’evangelista spiega il suo
atteggiamento come dettato dalla commozione che lo spinge ad anticipare
l’incontro, la soluzione alle domande del testo è già stata data da tempo nel
cuore del Padre!
Il figlio minore inizia a ripetere la
sua richiesta di perdono, ma il padre lo interrompe, quale sarà la sua reazione
a questo discorso preparato che cerca il perdono, o almeno una parte di
perdono?
Il padre non pronuncia una parola di
perdono, ma significativamente concretizza in dei gesti il suo perdono, innanzi
tutto rivolgendosi ai servi e differenziandoli dal figlio, lui che voleva
essere trattato come uno di loro viene riaffermato nel suo ruolo di padrone da
rivestire e riverire. I doni simboleggiano infatti la sua autorità ed una
situazione di pieno reinserimento come padrone: l’abito, l’anello e soprattutto
i sandali che solo il padrone porta in casa propria, non gli schiavi scalzi, ne
gli ospiti che sono invitati a toglierli. Si tratta di una reintegrazione
totale.
Ma c’è un crescendo: si organizza una
festa che viene motivata dal ritrovamento e ritorno del figlio. E’ interessante
a questo punto notare come il padre presenti l’errore del figlio con due
metafore che sono una sua completa discolpa: infatti sia chi muore che chi
viene perduto non è normalmente da considerare colpevole di ciò che avviene. I
verbi in forma passiva accentuano questa notazione.
Un cambio di scena e di luogo introduce
l’ingresso del secondo figlio. Anche lui ha un comportamento che mostra il suo
ruolo e la sua dignità, prima di entrare in casa anticipa il confronto
chiedendo ad un servo. La sua reazione di rifiuto pone la situazione in una
empasse, è necessario un intervento di qualcuno perchè ci possa essere una
soluzione nei rapporti interni alla famiglia: le domande che vengono a porsi
sono infatti, Come reagirà il padre? Come reagirà il fratello minore? Chi farà
la prima mossa?
Il padre esce incontro al figlio, è
significativo questo farsi incontro del padre al figlio che sta sbagliando, che
lo accusa di parzialità. Nello schema dei movimenti di questa breve storia è
sempre il padre che in posizione intermedia va verso i due figli, per spingerli
a godere della sua bontà.
L’andare verso il figlio è per il
lettore una chiara indicazione di uguaglianza nel trattamento riservato ad
entrambi, indica già che da parte del padre non ci sono preferenze, ma questa
anticipazione della soluzione non è a portata del figlio che reagisce parlando
al proprio padre (notare la sottolineatura) con tono di risentimento.
Il figlio maggiore gli contesta una
ingiustizia e parzialità che toccano esclusivamente il rapporto tra loro due.
La protesta si rivolge contro il padre mentre il fratello viene ignorato. Il
figlio contesta una generosità del padre nei suoi confronti che sembra mancare
di fronte alla generosità mostrata verso il figlio minore. Si sottolinea per
contrasto il suo comportamento meritorio contro quello dissoluto del fratello.
La risposta del padre ribadisce varie
elementi interessanti:
Il padre non ha fatto il gesto del dono
al figlio maggiore di un capretto perchè nei suoi confronti tutto è posto a sua
disposizione come dono. Inoltre il parallelismo posto dal Figlio: “Per Lui il
vitello, per me nemmeno un capretto” viene sconfessato dal padre. Il vitello
infatti serve a tutta la famiglia che “deve” far festa, il ritorno del fratello
non comporta una perdita di ricchezza, ma un acquisto di ricchezza da parte del
padre e del fratello.
Si pone così in chiaro una divisione e
diversità di vedute tra il padre ed i due fratelli, per questi ultimi, ora ed
in tutta la storia la ricchezza che sta al centro dell’attenzione è quella
materiale, mentre al centro dell’attenzione del padre la ricchezza che conta è
quella spirituale della fratellanza e della figliolanza. La ricchezza che il
padre costantemente cerca è l’unità della famiglia.
Questa soluzione non è comunque totale,
il padre propone una risposta alle domande del figlio, ma non abbiamo notazione
della reazione di quest’ultimo, e questo a motivo del contesto che lega la
parte finale di questa storia alla sua introduzione più ampia in 15,1-3. La
risposta finale mantiene la parabola aperta verso i suoi ascoltatori e le loro
reazioni.
La domanda che scatenava il problema
all’inizio del cap 15, a cui Gesù risponde con una argomentazione narrativa era
infatti: è giusto trascurare i Giusti ed i Retti per far festa con i peccatori
ed i pubblicani?
In questa ottica la risposta di Gesù si
pone in linea con quella del padre, non si tratta di derubare nulla, non è un
paradiso materiale che si impoverisce se viene condiviso, il regno a cui Gesù
invita tutti, anche i peccatori, si pone nell’ottica della ricchezza
spirituale, una fratellanza che deve essere restituita a tutti gli uomini come
somma ricchezza, la sola per la quale valga la pena di impegnarsi.
Non diventa fuori luogo notare come il
testo evangelico immediatamente seguente abbia proprio a che fare con la
ricchezza materiale ed il buon uso della ricchezza materiale in vista della
conquista di una ricchezza migliore, che nel caso dell’amministratore infedele
è una specie di “fratellanza interessata” (cfr 16,4b).
Verso Gerusalemme: 17,10-19
“Gesù saliva verso Gerusalemme”: questo
ritornello scandisce la sezione centrale del vangelo di Luca, ad un punto tale
che ha finito per darle il nome; la si chiama infatti di solito “salita a
Gerusalemme” (cfr 9,51.53.57; 10,1; 13,22.33; 17,11; 18,35). Una salita che é
d’altra parte più teologica che geografica, tutta volta al momento finale, “la
salita” di Gesù verso il cielo, una salita che attraverso l’elevazione della
croce porterà Gesù fino alla gloria alla destra del Padre.
All’interno di questo schema più
generale si situa l’episodio dei 10 lebbrosi sanati; questi si fermano a
distanza, come prescriveva loro la legge ebraica, e da lontano rivolgono a Gesù
una supplica piena di fede: “Gesù maestro, abbia pietà di noi”.
É piuttosto raro nel vangelo l’uso del
nome Gesù in una invocazione rivolta al Cristo, alle tre volte che Luca trova
già in Marco, ne aggiunge personalmente due: i 10 lebbrosi ed il buon ladrone.
Vi ha visto senza dubbio una analogia: nello stesso contesto della morte di
Gesù: Gesù già in croce o Gesù che sale verso Gerusalemme, il calvario, la
croce; nello stesso contesto di peccato, infatti per la mentalità ebraica la
lebbra era la conseguenza di uno stato di peccato del lebbroso; questi
personaggi interpellano Gesù chiamandolo per nome, per ottenere da lui una
liberazione materiale, ed in tutti e due i casi riescono ad ottenere molto di
più: la salvezza. Questa salvezza é ottenuta tramite l’invocazione del nome di
Gesù come fanno notare gli orientali che fondano su questi passi la loro tradizione
sulla preghiera nel nome di Gesù.
“Abbi pietà di noi”, questa invocazione
traduce una espressione ebraica tipica di Luca che designa la grazia e la
tenerezza di Dio. Si tratta quindi di un appello rivolto direttamente all’amore
misericordioso di Dio.
La fede di questi lebbrosi si rivela
straordinaria: Gesù non li guarisce, si limita a dire loro di andare a farsi
vedere dai sacerdoti, cioè di andare dai sacerdoti a far constatare l’avvenuta
guarigione, quando in realtà loro non sono ancora guariti. Essi vanno,
mostrando così la loro fede, e meritando così lungo il cammino la guarigione;
si tratta di una fede ben rara a trovarsi.
La fede del decimo lebbroso però,
sorpassa quella di tutti gli altri, almeno nella presentazione che ne dà Luca.
Egli infatti riconosce in Gesù molto più che un semplice uomo: si prostra con
il volto a terra, un gesto che il Nuovo testamento riserva soltanto a Dio, e
“gli rende grazie” con un verbo che nel greco del NT ha sempre e solo Dio per
oggetto. Si tratta in pratica di dire che Gesù per lui é Dio.
Cerchiamo di andare oltre; normalmente
tendiamo a leggere questo testo nel senso che gli altri nove, ingrati, non
erano tornati a ringraziare. Però Luca non dice nulla di questo, mentre lascia
intendere che essi obbedendo scrupolosamente al messaggio di Gesù sono andati a
mostrarsi ai sacerdoti. Se quest’ultimo torna indietro non può essere a motivo
del fatto che ha compreso che il vero sacerdote a cui mostrarsi é Gesù? Non é
una teoria assurda. Anche se la lettera agli Ebrei é il solo scritto del nuovo
testamento a presentare con chiarezza la figura di Gesù come quella del nuovo
Sommo Sacerdote, è innegabile che Luca vi faccia almeno delle allusioni.
Con grande abilità narrativa Luca
attende prima di svelare l’identità dell’uomo, quasi nel timore che pregiudizi
razziali o religiosi impedissero di ammirarlo nel modo giusto. Solo quando il
lettore ha riconosciuto la grandezza della sua fede egli dichiara: “ed era un
samaritano”, anzi fa dire a Gesù: “Non é tornato indietro che questo
straniero”, sottolineando così in quel personaggio il simbolo di tutti coloro
che pur essendo estranei al popolo dell’alleanza, vengono tuttavia da Gesù. Con
questo si guadagna la salvezza: “la tua fede ti ha salvato”.
La fede degli altri nove aveva valso
loro la guarigione dalla lebbra, la fede del decimo, una fede che si pone sul
piano del riconoscimento della divinità di Gesù, vale al suo possessore la
salvezza. Dopo la guarigione dal male c’é ancora una guarigione ben più
importante di cui abbiamo bisogno, e questa salvezza é offerta a tutti, non
solo agli ebrei.
Nel vangelo di Luca gli episodi si
susseguono apparentemente senza ordine logico. In realtà c ‘é un legame
profondo: il nostro racconto é centrato sulla fede che ottiene la salvezza; ed
é logicamente preceduto da due piccoli episodi che lo illuminano. “Aumenta la
nostra fede” chiedono gli apostoli (17,5-6), e Gesù risponde che anche una fede
piccolissima può fare meraviglie, come diviene evidente nel racconto dei
lebbrosi.
Quello che si ottiene per fede,
continua logicamente Luca, non può essere oggetto di vanto, non e mai qualcosa
che ci é dovuto, una ricompensa, un salario, ma si tratta sempre di una grazia
(17,7-10), come mostra chiaramente il nostro episodio.
Subito dopo si passa alla domanda dei
farisei sulla venuta del Regno di Dio; la risposta che ricevono: “il regno di
Dio non viene in modo eccezionale, é in mezzo a voi”, mostra che questo regno è
dove si trova Gesù, quando lo riconosciamo, il regno di Dio é là, e siamo
invitati ad entrarvi attraverso questa fede.
La settimana di passione
Con il racconto dell’ingresso di Gesù
in Gerusalemme inizia la settimana centrale della vita di Cristo, che anche la
liturgia ricorda rivivendola in 7 giorni di riflessione e di preghiera. I
quattro evangelisti, che spesso si differenziano nel modo e nell’ordine con cui
raccontano i fatti della vita di Gesù, diventano da questo punto in poi quasi
perfettamente paralleli. L’importanza dei fatti narrati si manifesta anche in
questa stabilità dei testi.
Questo fatto é evidenziato anche dalla
nostra esperienza di lettori: infatti i racconti pasquali dei vangeli ci
appaiono familiari e lo svolgersi delle azioni facilmente prevedibile.
Questo svolgimento è chiaramente
spiegabile dalla lunga storia di questi racconti della passione, nati in
collegamento con le celebrazioni liturgiche delle prime comunità si sono
stabilizzati molto prima della stesura definitiva dei vangeli, che li hanno
accolti al loro interno con un grande rispetto della forma già assunta dalla tradizione.
Questo rispetto non ha però impedito ad
ogni evangelista di segnare in modo personale, attraverso piccole aggiunte o
sottolineature di tono i racconti, per portare avanti i temi fondamentali della
propria riflessione su Gesù e sul suo mistero. In queste narrazioni Luca segue
globalmente il piano di Marco, ma con una libertà notevole nel compiere piccoli
spostamenti o aggiunte. Ad esempio: il pianto su Gerusalemme 19,41-44; la
descrizione fatta da Gesù della fine di Gerusalemme 21,24; l’invito alla vigilanza
alla fine del discorso escatologico 21,34-38; il pranzo pasquale 22,15-18; la
preghiera di Gesù per Pietro 22,31-32; le consegne di Gesù ai discepoli
22,35-38.
Una delle particolarità di Luca é il
posto importante che dà a Gerusalemme ed al tempio. Soltanto lui annuncia in
modo chiaro la caduta di Gerusalemme, distinguendola con chiarezza dalla fine
dei tempi. Il tempio, centro della vita giudaica, diventa per lui il punto
culmine del compimento e della fine dell’antico testamento; il seme da cui spunterà
la chiesa. Anche Gesù vi parla a lungo, mostrandosi padrone di quel luogo che
Dio, nonostante le proteste (20,16), ha tolto alle antiche autorità.
Gesù che entra in Gerusalemme come un
re (può essere interessante confrontare Lc 19,29-40 et lRe 1,28-40) viene
accostato alla figura di Salomone, il costruttore del primo tempio. Così il
banchetto a cui Gesù invita i suoi discepoli é presentato nei termini di un
banchetto regale (22,24-30). E più tardi questa immagine di regalità viene
rafforzata dal contrasto, proprio di Luca, tra un re da operetta come Erode e
la maestà silenziosa del Cristo (23,6-12).
Questo tema della maestà traspare nella
stima del popolo di Gerusa1emme, che in Luca non risalta come il principale
protagonista della condanna di Gesù, ma come una massa facilmente manovrata dai
capi (23,13); si tratta in realtà soprattutto dell’opera del Demonio che
troverà un facile collaboratore in Giuda, ed approfitterà del timore e dello
sconforto degli altri apostoli.
Il commovente discorso di addio, che
Gesù pronuncia dopo la cena, segna l’unicità di questa “ora delle tenebre”,
quando i discepoli dovranno armarsi di fede per evitare di soccombere
(22,35-38). A differenza degli altri evangelisti Luca lascerà sotto un velo di
misericordioso silenzio l’abbandono di Gesù attuato anche dai discepoli (cfr Mt
26,56 e Mc 14,50).
L’Ultima cena
Il racconto dell’istituzione
dell’eucarestia in Luca è il più lungo tra i sinottici e mostra anche
significative differenze.
A differenza di Mt e Mc nel suo testo
Luca non presenta i discepoli che invitano Gesù a preparare per la pasqua, ma
al contrario mostra il tutto diretto da Gesù, che prende l’iniziativa e manda
Pietro e Giovanni, due dei suoi più stretti collaboratori. Abbiamo quindi una
descrizione che da una parte ci mostra la decisione dei nemici di Gesù di
organizzare la sua esecuzione; dall’altra ci mostra l’impegno di Gesù nel
costruire un quadro che doni un significato nuovo a questo avvenimento: ciò che
vivrà non sarà un’esecuzione capitale, ma una pasqua.
Per rafforzare questa idea Luca segna
in modo forte ed esteso il rapporto tra l’ultima cena e la pasqua dell’antica
alleanza. Perciò articola il racconto in due parti parallele: si mangia
l’agnello e si beve dal vino della prima coppa, poi si mangia il pane e si beve
da una seconda coppa. Si tratta della fine di un rito antico ormai compiuto e
dell’instaurazione di un nuovo rito che ne è il compimento: la pasqua d’ora in
poi dovrà compiersi nel regno di Dio che Gesù viene ad inaugurare.
Questo regno che è già presente a
partire dal momento in cui Gesù si manifesta in mezzo agli uomini, deve d’altra
parte ancora venire, perchè non sarà pienamente realizzato che alla fine dei
tempi. Tra la pasqua Giudaica ed il banchetto del Regno, l’eucarestia
costituisce, nel tempo che viviamo, il compimento della prima e l’annuncio del
secondo.
Nei due altri sinottici le parole sul
calice: “sangue dell’alleanza”, ricollegano il gesto di Gesù al rito compiuto
da Mosè sul Sinai, quando unì, aspergendoli dello stesso sangue, l’altare e la
comunità del popolo (Es 24,6-8). Luca a somiglianza di Paolo parla invece di
“nuova alleanza” collegandosi così all’oracolo di Geremia 31,31-34. Con la
morte di Gesù è questa nuova alleanza promessa dai profeti che entra in vigore.
Marco inoltre parla del sangue “sparso
per molti”, e Matteo aggiunge a questa formula “in remissione dei peccati”.
Facendo così, cercano di sottolineare il valore universale della salvezza
portata dal Cristo. Luca che sostituisce la frase con “sparso per voi”, avrebbe
forse l’intenzione di dire che la morte di Cristo ha un valore limitato alla
salvezza dei partecipanti all’ultima cena? Non sembra proprio. Quella che
appare come la spiegazione migliore e’ che Luca abbia cercato di stabilire un
parallelismo con la formula che accompagna l’offerta del pane: “questo e’ il
mio corpo offerto per voi”. Offerto per voi, versato per voi; Luca è il solo a
sottolineare con insistenza il dono che Gesù fa di sè nello stesso gesto
dell’eucarestia.
Il verbo greco usato, un participio presente,
ha il senso di un gesto iniziato e che continua. Nella nostra liturgia, con
l’uso di queste formule lucane, evochiamo il carattere sacrificale
dell’eucarestia ed il suo legame con la morte in croce di Gesù.
Dopo l’offerta del pane, Luca inserisce,
come Paolo la formula “fate questo in memoria di me”; ma non la ripete nè
amplifica come in (lCor 11,26). Con questa indicazione infatti si preoccupa
soltanto di agganciarci ancora alla tradizione giudaica sulla Pasqua, quando
durante il pasto bisogna “fare memoria” dell’atto con cui Dio ha liberato il
suo popolo (Cfr Es 12,14; 13,9 Dt 16,3), e questo memoriale viene spiegato
dicendo che ognuno deve considerarsi come se fosse uscito lui stesso
dall’Egitto.
Se la morte e resurrezione di Cristo
sono per noi la Nuova Pasqua, il vero passaggio dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia, dalle tenebre alla luce, come dice il rituale
giudaico della pasqua, l’eucarestia, come memoriale di ciò, è il momento in cui
accogliamo il dono di Dio,e dove ce ne appropriamo totalmente.
La presenza di questo testo nel vangelo
di Luca ci ricollega con certezza alle celebrazioni liturgiche dei primi
cristiani. Gli evangelisti infatti non si sono limitati ad una cronaca dei
fatti della vita di Gesù, ma li hanno riletti alla luce della vita della fede,
per fornire ai fedeli i mezzi per vivere oggi la comunione con il Cristo
risorto.
Fino dalla descrizione dell’agonia di
Gesù, il racconto della passione fatto da Luca presenta delle caratteristiche
peculiari. Marcato da una profonda delicatezza e rispetto nei confronti del
Signore, questo racconto evita alcuni dettagli particolarmente odiosi: Giuda
non abbraccia Gesù, si accosta soltanto per farlo; Gesù non viene flagellato…
Nella sua presentazione Luca mostra la passione non come vista dall’esterno,
nella testimonianza di uno spettatore impassibile, ma come rivissuta
dall’interno, assieme a Gesù. Il sangue della passione infatti sgorga
dall’interno, dal cuore del Cristo. Luca soltanto parla di “sudore di sangue”.
E non si tratta di fare speculazioni mediche sulla possibilità o meno di questo
fenomeno; quello che Luca cerca di passare attraverso questa descrizione è la
coscienza chiara che il luogo ove si svolge realmente il dramma della passione
è il cuore stesso di Gesù, il suo intimo.
Il racconto dell’agonia diviene in Luca
il racconto della lotta decisiva contro il potere delle tenebre; contro Satana,
che lo aveva lasciato dopo le tentazioni, per tornare al tempo fissato (4,13),
Satana che è appena entrato nel cuore di Giuda (22,31) e che sta tentando di
conquistare l’anima di Pietro. Qui Gesù riceve il conforto di un angelo, come
era accaduto ad Elia in una situazione molto simile (1Re 19,5): dopo questo
conforto ricevuto da Dio, il nuovo Elia può gettarsi in quest’ “ora delle
tenebre”, per ottenere anche lui, al termine della prova, la visione di Dio
nella sua Resurrezione.
Da questa lotta tremenda Gesù esce
vincitore, ormai rasserenato, non si ripiega su sè, stesso di fronte alla
sofferenza, ma la vive con la più alta disponibilità agli altri: accoglie con
delicatezza Giuda, guarisce l’orecchio del servo, volge lo sguardo su Pietro
che lo sta rinnegando, consola le donne che fanno lamenti su di Lui, prega per
i suoi carnefici, promette il paradiso al buon ladrone. Soprattutto nel vangelo
di Luca Gesù risalta quindi come il martire che con la sua pazienza si mostra
più forte del male.
Il racconto dell’agonia, che
presentando la conquista da parte di Gesù di questa situazione d’animo, diviene
il punto iniziale e la fonte del senso della passione; e’ inquadrata da una
duplice esortazione a “vegliare”, non solo rivolta ai discepoli, ma a tutti
coloro che leggendo il vangelo sono invitati ad entrare nella passione assieme
a Gesù.
Gesù è il martire sofferente, nel
vangelo di Luca, e per questo è necessario che la sua sofferenza sia subito
chiarita come sofferenza dell’innocente. Questa innocenza è proclamata da tutti
lungo lo svolgersi del racconto: Pilato la ripete per tre volte 23,4.14.22;
Gesù la ricorda alle donne, Lui e’ il legno verde che non merita di essere
bruciato; il popolo sotto la croce, è in Luca più curioso che ostile, e non si
associa agli scherni ed alle bestemmie dei capi; il ladrone annuncia che Gesù
non ha fatto nulla di male; il centurione proclama la Sua innocenza; ed il
popolo abbandona il calvario battendosi il petto.
A questo tema dell’innocenza si collega
il centro della lettura che Luca fa della passione: L’innocente condannato è il
figlio di Dio. Durante il processo di fronte al Sinedrio, il sommo sacerdote in
Marco e Matteo chiede a Gesù: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio?”. In questo
contesto l’espressione Figlio di Dio, diventa un sinonimo, un modo diverso di
designare il Cristo-Messia. Luca ha invece raddoppiato questa domanda, facendo
sì che la riflessione si sviluppasse in due momenti, come fa anche altrove (cfr
l’annunciazione). “Sei tu il Cristo?” chiede il Sommo Sacerdote. Gesù, come in
Mc e Mt, risponde in modo ambiguo, presentandosi cene “il Figlio dell’uomo che
sta per sedersi alla destra della potenza di Dio”. Il lettore riconosce in
questo una risposta sufficiente ed esaustiva: Gesù porta a compimento le
speranze preannunciate e promesse dalle Scritture.
Luca però non si accontenta di questa
risposta, Gesù infatti porta a compimento le scritture in un modo talmente
meraviglioso da apparire inimmaginabile: il Sommo Sacerdote infatti riprende,
“Sei dunque il Figlio di Dio?”, e Gesù risponde chiaramente di Si. Questa
espressione ora, nel nuovo contesto lucano, non può avere un significato diverso
da quello forte che doniamo noi oggi all’affermazione di fede: Gesù è Figlio di
Dio; ed è proprio per questa dichiarazione che Gesù viene condannato a morte.
Un altro interessante tema, che Luca
affronta nella sua presentazione personale della passione è quello della
regalità di Cristo. Nel vangelo di Giovanni Gesù dice a Pilato di non essere un
re come i re che stanno sulla terra, nel vangelo di Luca Gesù mostra questo
nella scena che lo pone a confronto con Erode, riportata soltanto da Luca.
Matteo tratta il tema del confronto tra i due re all’interno del vangelo
dell’infanzia, quando Gesù ed un altro Erede sono drammaticamente messi a
confronto: due re per un unico regno, almeno nella presentazione che ne fanno i
Magi.
Luca pone il confronto al cuore della
passione, come un intermezzo nel confronto Gesù-Pilato, che ha la funzione di
dare anche il senso a quell’episodio; in lui Gesù tace, mostrando così con
chiarezza di non essere un re terreno, venuto per dominare, ma che è soltanto
venuto per servire 22,24-30.
Sulla croce Gesù parlerà, e dirà in
quel diverso contesto la stessa cosa, infatti la parola che Gesù rivolge al
ladrone prende senso dal contesto in cui Luca la pone, accanto cioè agli
scherni dei soldati e dei capi che come burla annunciano però la verità della
regalità del Cristo. Con il suo discorso al buon ladrone, proprio di Luca, Gesù
mostra infatti in quale modo concepisca la propria regalità. “Gesù, ricordati
di me quando verrai nel tuo regno” (cioè come re), aveva detto il buon ladrone.
Come i dieci lebbrosi (17,13) si era rivolto a Gesù chiamandolo con questo
nome, esprimendo con ciò la confidenza di una relazione personale. Da buon
giudeo considera la venuta della salvezza come intimamente legata all’inizio
del Regno del re Messia. Gesù risponde ricordando che la salvezza è già Oggi
disponibile, perchè già oggi il suo regno viene instaurato, egli non è un re
terreno, preoccupato della propria salvezza, ma è re per poter salvare coloro
che credono in lui.
LA PASQUA DEL SIGNORE
I vangeli, scritti circa 50 anni dopo
la resurrezione, non si preoccupano di farne un resoconto dettagliato, nella
chiara coscienza di trovarsi di fronte ad un mistero, ma piuttosto di mostrarne
il significato per i credenti e di dare loro concrete indicazioni per viverlo.
Ogni evangelista fa questo in modo
molto personale distinguendosi nella forma, ma non nel contenuto di fede, dalle
testimonianze degli altri.
Nella sua presentazione Luca si
preoccupa di mantenere tutto all’interno di una chiara unità temporale: tutto
avviene nel primo giorno della settimana, che per i Cristiani è diventato la
domenica, il “giorno del Signore”. Abbiamo già notato come Luca possieda una
capacità artistica notevole nel comporre le narrazioni e sembra in questo
seguire le regole dell’arte letteraria classica, condensando in un’unità di
luogo tempo ed azione, il messaggio conclusivo ed assieme centrale del suo
Vangelo.
Sono quattro episodi profondamente
concatenati: la scoperta della tomba vuota, l’incontro con i discepoli di
Emmaus, la riunione di questi con la prima comunità cristiana e l’ascensione
Dalla resurrezione all’ascensione tutto avviene in un solo giorno, tutto è
centrato in un unico luogo: Gerusalemme, tutto sviluppa l’unica azione di un
progressivo riconoscimento di Gesù da parte dei suoi.
L’unità di azione si sviluppa nella
progressiva presa di coscienza della presenza del risorto; quando questa fede
pasquale è saldamente stabilita tra i discepoli, l’ascensione viene a sancire
l’inizio definitivo del tempo della Chiesa, come tempo della presenza gloriosa,
non più tangibile del Cristo. Rispetto al vangelo di Matteo, che sottolinea la
presenza del Risorto nella chiesa, nel messaggio finale, Luca pone maggiormente
in risalto, l’aspetto di “assenza”, di questa presenza del Cristo, rispetto ai
tempi precedenti la pasqua.
Questa unità si sottolinea anche
geograficamente, in Luca non ci si allontana da Gerusalemme, non si parla di
apparizioni in Galilea, e la strada di Emmaus non allontana i discepoli in modo
significativo: in serata tornano di corsa in città. Gerusalemme è stata per
tutto l’antico testamento la città della rivelazione, della manifestazione di
Dio ad Israele, e per Luca, attento a mostrare la continuità del piano di Dio
nella storia, questa sottolineatura geografica diviene rilevante. Tutta l’opera
d ‘altra parte si articola su questo centro geografico a cui tende e da cui
parte 1 ‘annuncio del vangelo.
Nella città il centro degli avvenimenti
è costituito dalla prima comunità cristiana: gli undici ed i discepoli raggruppati
attorno a Simone, che costituisce visibilmente la “Pietra” su cui si appoggia
la fede di tutti. Le donne vengono da loro per raccontare la scoperta della
tomba vuota; i discepoli di Emmaus fanno il resoconto del loro incontro con il
risorto; Gesù appare in mezzo a loro, promettendo il suo dello Spirito perchè
possano portare la loro testimonianza da quel luogo fino agli estremi confini
della terra.
In questo “luogo unico” risuonano le
parole che costituiranno la base della catechesi cristiana, illuminando tutta
la vita di Gesù alla luce del mistero della pasqua. Luca, che vive l’esperienza
dei Cristiani della diaspora, ormai di fatto dispersi nei vari luoghi della
terra, guarda a questa prima comunità di Gerusalemme come al punto di unità, su
cui si appoggia l’unità della fede di comunità pur geograficamente divise.
L’unità di tempo, centrata sul Giorno
domenicale, è una costruzione volontaria di cui Luca è cosciente: nel libro
degli Atti dirà infatti che Gesù è apparso per 40 giorni. Il fine di questa concentrazione
di tutte le apparizioni e della stessa Ascensione in un’unica giornata risulta
con chiarezza nella volontà di Luca di presentare ai Cristiani una giornata
Tipo. Si tratta della Domenica tipo, per tutti cristiani che in questo giorno
festeggiano la resurrezione del Signore, il vangelo ci invita a rifare
l’esperienza pasquale che comprende tutti gli elementi di queste narrazioni: la
fede nel fatto (il sepolcro vuoto); il confronto con la testimonianza delle
Scritture e l’eucarestia come esperienza di incontro con il Risorto sempre
disponibile per la chiesa di tutti i tempi ed i luoghi (i discepoli di Emmaus);
l’esperienza della presenza attiva del Risorto nella Chiesa riunita assieme a
Pietro e fondata sulla sua fede (le apparizioni); l’impegno della vita della
chiesa come testimonianza che continua la missione terrena del Cristo
(l’ascensione).
Il vangelo di Luca si chiude quindi con
un appello chiaro ad ogni lettore cristiano perché la sua vita sia
profondamente permeata dalla fede pasquale, ed animata dall’azione dello
Spirito.
https://comboni2000.org/2021/02/05/lectio-sul-vangelo-di-luca-2/